domenica 20 gennaio 2013

Django di Sergio Corbucci (1966)


Una landa desolata, sulle basse colline che segnavano il confine tra gli stati del sud e il selvaggio Messico, lercia e fangosa, è attraversata da un uomo a piedi. I colori indefinibili della terra e del cielo sembrano fondersi mentre questi si muove trascinando dietro di sé una bara. Così il regista Sergio Corbucci introduce uno dei più leggendari fra personaggi e tipi dello spaghetti western, Django, che sotto il pastrano indossa una lisa e sbrindellata divisa nordista e ha gli occhi azzurri e la pelle ambrata di Franco Nero.
Corbucci, nel 1966, scrive e gira il più grande spaghetti western della storia del cinema. Sia chiaro, Django è in grado di competere e primeggiare con la Trilogia del dollaro di Sergio Leone, sia in termini di mitopoiesi sia in termini strettamente cinematografici. A fare di Django un personaggio-tipo, reiterato all'infinito sia in pellicole di origini europee che americane, è il suo aspetto, riconoscibile, allo stesso tempo surreale e realistico. I suoi movimenti lenti ma decisi presagiscono un progetto (che si rivelerà durante lo svolgimento della pellicola) e niente dall'esterno potrà mai scalfirne gli intenti, né il cielo gravido e immobile né la desolazione e l’irreversibile corruzione della cittadina al confine con il Messico in cui arriva. Questo è luogo disabitato e terra di scontro violento fra le truppe dell’invasato e razzista maggiore Jackson, che con le sue truppe incappucciate di rosso vessa la popolazione messicana arrivando persino a giocare al tiro a segno con i prigionieri, e quelle rivoluzionarie del generale Rodríguez, una truppa altrettanto marcia e violenta. Django non cerca il bene, è un fantasma cinico cui Jackson ha strappato l’amore della sua vita. Non si scompone di fronte alle bellezze policrome delle ragazze del miserabile barista Nathaniel, né a quella enigmatica di Maria (la splendida Loredana Nusciak). La barbarie di Jackson e l’avidità di Rodríguez così come la pochezza (da riscattarsi) del barista Nathaniel, sono per Django semplici emanazioni che hanno senso solo se finiscono sul suo percorso.
Fra sparatorie multiple, assalti, violenza gratuita, tortura (in questo film l’origine della sequenza che ha ispirato la scena dell’orecchio in Le iene di Quentin Tarantino), oro e umanità non-umana, Django consuma la sua fatalistica risoluzione e la maestria di Sergio Corbucci consegna alla storia del cinema una pellicola in grado di superare i confini del genere spaghetti western – pur mantenendo i suoi connotati esemplari – la cui scrittura, regia e fotografia hanno fatto (e tuttora fanno) scuola.
Oltre a una folta lista di pellicole che hanno ripreso il nome di Django durante gli anni Settanta, sono da segnalare: l’unico seguito vero e proprio della pellicola, Django 2 – il grande ritorno, Sukiyaki Western Django di Takashi Miike e l’ultima incarnazione, Django Unchained di Quentin Tarantino.


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