sabato 18 maggio 2013

Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann (2013)


Ci risiamo, è straordinario come non perdiamo un’occasione per dimostrare di non possedere memoria a breve termine. Quando si è saputo che all'ultimo festival di Cannes, dove il film è stato proiettato tre giorni fa, Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann ha ottenuto una tiepidissima accoglienza, dicheno al limite dell’imbarazzo, ci si è subito precipitati a ingrossare le fila dei detrattori, a storcere il nasino alla francese (che non tutti, però, possiamo esibire) di fronte alla nuova trasposizione del romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Nessuno sembra ricordarsi che, nel 1996, all’uscita di Romeo + Giulietta di William Shakespeare, la reazione era stata simile se non peggiore, salvo negli anni successivi sperticarsi in un crescendo di lodi che portarono il film ad assumere il ruolo principe fra le trasposizioni cinematografiche della tragedia shakespeariana. Si arrivò persino alla dichiarazione da parte degli esegeti più intransigenti che Il film fosse in grado di superare la visione statica e legata di Franco Zeffirelli. Qualcosa mi dice che stessa sorte toccherà anche al Gatsby di Luhrmann, una lunga, magnifica, visione in cui il regista australiano riesce a liberare e materializzare l’incredibile carica visiva insita nella pagina di Fitzgerald. Il film è punteggiato da citazioni dirette dal romanzo, inserzioni tipografiche che deflagrano nella visione cinematografica come i fuochi d’artificio durante una delle feste di Jay Gatsby.

Una delle visioni camp de Il Grande Gatsby.
Ne Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann ritroviamo tutto lo stile che abbiamo imparato ad amare, uno stile che fa di stupore e accumulazione i suoi cardini principali. C’è di più, il film, attraverso le sue sequenze più allucinanti, le continue commistioni musicali e stilistiche, le sequenze in odore di morgue, provoca un lento straniamento nello spettatore. Straniamento che potremmo definire «esterno» e sociale: si pensi all’incontro musicale tra Gershwin e Jay Z durante l’orgia bohèmienne che introduce Nick Carraway alla vita di New York, o alla contestata inquadratura della macchina guidata da un autista bianco mentre un gruppo di afroamericani brinda ad alta velocità. Tali spunti, andrebbero maggiormente affrontati nelle classi di comparatistica e letteratura coloniale, a noi interessano nella misura in cui s’inseriscono nella grande visione camp voluta da Luhrmann per il suo Gatsby. Una liberatoria e stupefacente sensazione d’incongruo e di eccessivo, che contrappone (nel film anche geograficamente) il dandy dell’età del jazz, il «grande» Gatsby, alla schiera dei conservatori e ipocriti, intenti, nello stesso momento, in sordide tresche e in accorate difese dello status quo sociale. Gatsby fa della sua vita un proscenio in cui interpretare l’alterità che la sua visione ha precocemente partorito. Questo concetto di «vita-come-teatro» è cardine del camp e diventa centrale nell’interpretazione del personaggio di Fitzgerald fatta da Luhrmann. Una teatralità esaltata nell’interpretazione del «grande» Leonardo DiCaprio che lavora su un Jay Gatsby impegnato con indefesso ardore a realizzare la sua visione contro natura (tornare indietro nel tempo) e quindi ancora una volta camp.

Riconosciamo come straordinarie le interpretazioni dell’intero cast, davvero in stato di grazia: Tobey Maguire che offre il suo sguardo rotondo a Nick Carraway, Carey Mulligan che presta il volto a Daisy, la «ragazza d’oro» amata da Gatsby, Elizabeth Debicki che incarna la compunta e iconica Jordan Baker.
Posso solo consigliare di offrire una chance allo stupefacente Grande Gatsby di Luhrmann, in attesa che le cattedre, e con loro la maggior parte delle penne, si orientino verso una celebrazione per l’ennesima volta a posteriori. 

4 commenti:

  1. Spesso non sono d'accordo con le tue recensioni che, per quanto sempre ben scritte, trovo spesso eccessivamente laudatorie. Stavolta però sono con te. Il film ha una sua visione del cinema e della vita e questo e palese già solo per questo andrebbe visto con un occhio almeno attento se non benevolo. Purtroppo però troppa gente è cresciuta con il mito di Fitzgerald e si è sentita in dovere di stroncare a priori un film che è per molti decisamente valido

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  2. Innanzitutto ti ringrazio per il commento sincero! Tranne alcuni, rari, casi se un film finisce su queste pagine possiede per me un grande valore, allora cerco di argomentare al meglio per trasmettere lo stesso entusiasmo ai lettori.
    Sono d'accordo con te, ho letto recensioni e tentativi di stroncatura davvero assurdi! Nella maggior parte guidati come dici, dal pregiudizio. In realtà il lavoro di Luhrmann deve servirci da esempio per l'approccio sano e lontano dagli altari (che non fanno che allontanare l'opera e l'autore dal pubblico di lettori) ai classici, siano essi antichi o moderni.

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  3. Interessante come la stampa straniera e italiana l'abbiamo massacrato all'unanimità e noi blogger invece ne siamo rimasti entusiasti!

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  4. Purtroppo anche alcuni blogger (con attitudine definibile "bimbominkia") hanno giocato al tiro a segno con "Il Grande Gatsby", ma leggendo i loro post non c'è una sola argomentazione, soltanto spocchia e vile superficialità.

    Detto ciò, sono stranito anch'io dall'accoglienza della stampa sia italiana che internazionale.

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