sabato 20 dicembre 2014

White Bird in a Blizzard di Gregg Araki (2014)



«Qui siamo dalle parti dell’oggetto erotico di quarto tipo. Sguardo “omosex”, fisicità “etero”, svenevolezze “queer”, re-mixate al ritmo da coroner del “Dopobomba” degli Slowdive». Roberto Silvestri.

Con queste parole di Silvestri su Doom Generation il Contenebbia Andrea Bruni chiudeva uno dei suoi pezzi più belli: una prospettiva su Gregg Araki per il leggendario dossier di «Nocturno Magazine» Quei bravi ragazzi. Parole che mi sono tornate rapide alla mente dopo la visione di White Bird in a Blizzard. Qui Araki torna nella zona suburbana per celebrare alcune delle ossessioni che più hanno influenzato il suo cinema: il confronto con le regole e le suggestioni del mélo (già terreno di confronto per John Waters, David Lynch e Todd Haynes), la bellezza iconica di certo porno, la soap opera, il teen drama e, dichiaratamente, la performance di Sheryl Lee in Fuoco cammina con me.
Con White Bird in a Blizzard ci troviamo di fronte a un oggetto cinematografico liminale, i cui contorni sfumano in una tempesta di neve, con protagonisti che assumono l’aura e l’irresistibile bellezza dell’icona, personaggi i cui tratti sono la commistione, la ricombinazione, di diversi immaginari, compresi quelli creati da Araki stesso. Pensiamo al personaggio di Kat, il cui look è basato su quello adottato da Winona Ryder alla fine degli anni Ottanta, Gabourey Sidibe che cita la Rose McGowan di Doom Generation (inizio sequenza del party goth) e Mark Indelicato che ci riporta a Totally Fucked Up in un intercalare, la capacità di seppellire i segreti e capitare "per caso" nei giardini altrui di Peyton Place, il look à la Ray Harley di Christopher Meloni, l’impostazione lynchiana in cui la superficie mainstream è data a sapide e posticce pennellate (realizzazione di un finale compreso).

Eve, mi passi il burro?
Il lavoro compiuto da Araki segna un nuovo passaggio nel percorso di fuga – impossibile da recuperare nell’interpretazione del sogno – da quell’«incubo ad aria condizionata» che Henry Miller ai tempi dell’avvento beat vedeva diventare gli Stati Uniti. Un incubo fatto di accecanti e bidimensionali mattini, arredamento dai colori pastello, oggetti al proprio posto (il resto, le cose inutilizzate o impossibili da mostrate possono benissimo essere relegate in cantina), superfici immacolate e tanta aggressività passiva. Un sogno senza significato, asfittico e mortale, quell’american way of life da cui non si può scappare nemmeno svicolando per i territori del fiabesco che, soffici e consolatori, celano solo per un po' orrore e violenza.
In White Bird in a Blizzard abbiamo una protagonista che è tra i personaggi più compiuti mai realizzati da Araki (a me ha ricordato la tensione emotiva dei protagonisti di The Living End), interpretata con naturalezza e capacità da Shailene Woodley, ma come in un affresco mélo gli altri personaggi sono incarnazioni riconoscibili. Abbiamo quindi il «ragazzo della porta accanto», l’oggetto del desiderio a portata di steccato interpretato in maniera umbratile da Shiloh Fernandez (novello Patrick Owens) ed Eve Connor, una padrona di casa che è già una stella sul viale del tramonto casalingo, un nevrotico, agghiacciante e fragile angelo del focolare domestico con i tratti sovrannaturali di Eva Green. Gli occhi sgranati di quest’ultima, la fisicità tirata seppur immobile nell’odio e nel rancore che la consuma e dissolve, sono la migliore rappresentazione del disagio e del vero orrore. Quell’orrore che pitturato di fresco ti accoglie per rivelarsi lentamente come prigione dissennata, muta e solitaria, dove l’unico riscatto può essere una risata mefistofelica prima della liberazione/esalazione in una sequenza conclusiva giustapposta. Uno sberleffo (mortale ça va sans dire) al concetto consolatorio e rassicurante di finale.

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