lunedì 8 giugno 2015

Prendimi l’anima o A dangerous Method?



Credo che poche volte nella storia del Cinema si sia stati davanti a una situazione del genere: ovvero alla trasposizione cinematografica di una storia realmente accaduta, sulla base di una serie di documenti scritti e fotografici, e di libri che sono stati, per entrambi i film, il punto di partenza. Multiformi non sono soltanto i media di riferimento; ma anche il soggetto. È un soggetto che riguarda la Storia, la Medicina, la nascente Psicologia/Psichiatria, ma anche l’amore e le passioni – un soggetto unico. Perché è un microcosmo capace di racchiudere buona parte della cultura borghese europea: la complessità dei rapporti familiari, la complessità del rapporto uomo-donna, la complessità del rapporto docente/discente, l’idea del progresso del pensiero, lo strano confine tra normalità, malattia e medicina. Se ne potrebbe parlare molto; non se n’è, forse, parlato abbastanza. Ma quando Sabina Spielrein varcò la soglia dell’ospedale in cui il giovane medico Carl Jung lavorava, varcò di fatto la soglia della Storia. Sul rapporto tra Spielrein e Jung, e sulla successiva triangolazione che coinvolse Freud, si sono scritti libri molto approfonditi e che valgono una lettura attenta e interessata. E il cinema? No, il cinema non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione di rappresentare questa storia. Una stessa storia che ha ispirato due film molto diversi. L’italiano Prendimi l’anima, di Roberto Faenza, uscito nelle sale nel 2002; e A dangerous method, di David Cronenberg, del 2011. 


Partire dal titolo può mettere in luce degli aspetti molto interessanti. Prendimi l’anima: il verbo è all’imperativo; è l’invito, la richiesta, la preghiera alla cura. Cura e amore sono fusi insieme, nello stesso movimento che è quello di afferrare, non per recidere ma per salvare l’altro dalla follia. Mentre per Cronenberg si tratta di un metodo (attenzione: non del metodo, ma di un metodo) pericoloso. Tutto qui. C’è pericolo. E c’è metodo. Si sottolinea che il rapporto di cura è un rapporto rischioso, che tuttavia presuppone un protocollo. Quanto sia rigido questo protocollo, beh, questo è un altro paio di maniche… 
Avevo nemmeno vent’anni quando ho visto Prendimi L’anima. La storia di Sabina, di questo amore impossibile e tuttavia fondamentale per lei e per Carl Gustav (quando ancora non era C.G. Jung), la realizzazione personale di una ragazza malata, così prossima alla perdizione quanto alla remissione, capace di parlare lo stesso linguaggio degli adulti e dei bambini – come avrebbe potuto non affascinarmi? Anch’io cercavo un’identità, all’epoca. E poi questo nome, Sabina, così ricorrente nelle opere di Anais Nin, prima paziente e poi psicanalista ella stessa, proprio come la Spielrein, ma con un vissuto molto diverso… Otto anni dopo, ancora Sabina Spielrein, ancora Jung e Freud, questa volta nella visione completamente diversa di Cronenberg. Chi scegliere? Molti si sono posti questo interrogativo, un interrogativo retorico perché, per chi conosce Prendimi l’anima, è sicuramente preferibile alla trasposizione di Cronenberg: è più romantica, più dolce, più serena, meno dispersiva, meno violenta, molto meno violenta. Ma forse non è il caso di fare una scelta così affrettata, prima di aver fatto un paio di considerazioni sulle differenze tra i due film. 

Le differenze più grandi, tra i due film, sono di due ordini. 



La prima dipende fondamentalmente dalle fonti (che ne pregiudicano il risultato). Prendimi l’anima è tratto dal bel lavoro di Aldo Carotenuto, Diario di una segreta simmetria, che tra l’altro – nella splendida edizione Astrolabio - Ubaldini Editore – contiene anche il diario di Sabina Spielrein. Ma Carotenuto è un junghiano. E non è un particolare di poco conto. Nel film di Faenza, Jung tutto sommato non ci fa una cattiva figura. È un professionista, anzi: un pioniere del lato oscuro della mente umana, al quale molti devono praticamente tutto, e la storia con la Spielrein non è una debolezza, ma un’inevitabile esperienza che gli apre possibilità concettuali, filosofiche, nuove – è il maestro che mostra il suo lato più umano, un uomo che soffre (“L’amore è pazzia, è pazzia!”, urla in una scena in cui finalmente il serafico, ieratico Iain Glen – pure, molto bravo – perde finalmente il controllo) di una sofferenza però che lo porta a un altro grado del pensiero. 

Nel film di Cronenberg, invece, i tre protagonisti – più un’indimenticabile Emma Jung, la moglie tradita, interpretata da Sarah Gadon – sono nudi nella fredda luce mitteleuropea di inizio secolo: la ricostruzione dei rapporti tra moglie e marito, tra amanti, tra discepolo e maestro, è minuziosa ed è effettuata attraverso lettere, documenti; tesi tra le maglie di relazioni dalle quali nessuno ha il coraggio di evadere, i quattro non cedono. E lo spettatore è libero di farsene l’idea che preferisce. Questo, non solo per la regia di Cronenberg e l’interpretazione di Fassbender, Knightley, Mortensen e Gadon, ma anche per la molteplicità dei punti di riferimento: A dangerous method è stato un testo teatrale (di Christopher Hampton, che ha curato anche la sceneggiatura per il cinema) ma ancora prima un saggio (Un metodo molto pericoloso di John Kerr, Frassinelli). Questi rimaneggiamenti – saggio, ricostruzione storica, testo teatrale, script cinematografico – hanno fatto bene alla vicenda. La storia è coesa e la si segue in uno svolgersi a volte veloce, altre più lento (soprattutto quando Cronenberg si dilunga – per me, molto felicemente – nell’illustrare la fitta corrispondenza tra Jung, Freud e Spielrein), ma sempre coinvolgente. E l’ago della bilancia non pende mai a favore di uno o dell’altro: non ci sono sconti per nessuno. 


Guardando Prendimi l’anima si poteva restare felicemente attaccati (e qui si potrebbe aprire una lunga parentesi sull’attaccamento in Psichiatria) all’immagine paterna preferita del Padre Fondatore cui ci si sente maggiormente vicini: Freud o Jung. O tutti e due, per non scontentare nessuno, all’italiana. A dangerous method invece mostra l’aspetto più puramente buio del rapporto Spielrein-Jung, ma anche Jung-Freud. È come spiare nella camera da letto di papà, per molti: non è dunque sorprendente che diversi amici psicologi e/o psicoterapeuti storcano il naso quando dico che amo questo film. 

La seconda grande differenza è che Prendimi l’anima ha a che fare con la Storia. Tutta la vicenda Jung-Freud-Spielrein è vissuta come un flashback, nel racconto dell’incontro tra uno storico (lo scozzese Fraser) e una ricercatrice (la francese Marie), ai giorni nostri. Il ritrovamento del diario di Sabina Spielrein, la ricerca delle testimonianze del suo lavoro come (oggi si direbbe) neuropsichiatra infantile nella Russia che stava per essere brutalizzata dalla Seconda Guerra Mondiale… La star è la Storia. La Storia nella quale siamo spinti a cercare di realizzare il nostro destino, prima che sia troppo tardi, prima che il treno ci scappi di mano e la nostra occasione sia perduta, si direbbe. Quello stesso treno che separa la ricercatrice Marie da Fraser, nelle fasi finali del film (perlomeno, non c’è un lieto fine in questo senso). In A dangerous method, invece, ciò che conta è il rapporto tra malattia e Medicina. È in questo rapporto che si risolve la relazione tra medico e paziente, tra Jung e Sabina Spielrein: nel dialogo finale, in cui i due parlano per l’ultima volta, mettendo in luce le proprie ferite (body horror dell’anima, senza grottesche protesi o cicatrici, ma anzi, le cicatrici che lasciano gli eventi nella storia personale di ognuno, quella che ha ancora la s minuscola, prima di essere risucchiata dalla Storia) e Jung dice: “Solo il medico ferito può guarire”. [All’epoca, occorreva essere medici per investigare la psiche. E anche qui, potrebbe aprirsi una lunga parentesi]. Ed è sempre nel rapporto Malattia- Medicina che si dissolve, infine, il rapporto tra Jung e Freud. Da solo, finito il rapporto con Sabina – musa e delirio – e con il padre Freud, Jung è l’uomo del Novecento, angosciato da visioni di sangue (le imminenti guerre) e da una relazione coniugale presente ma che non nutre la sua fibra. E non può che ricordarci, all’altro capo del mondo e del secolo, la figura di Eric Packer di Cosmopolis (film di Cronenberg del 2012). E questa è un’altra, collaterale – ma non meno, credo, importante – differenza tra i due film: Prendimi l’anima è la felice incursione di un regista italiano in una materia storica e, a suo modo, scottante; A dangerous method è un’opera che, in un certo senso, è perfettamente continuata da Cosmopolis e altrettanto perfettamente inserita nella visione del mondo di Cronenberg. 


L’esperienza di una storia vista da due registi così diversi, che può essere racchiusa nell’immagine della dolcissima Sabina di Faenza (Emilia Fox at her best) prima, e della tormentata Sabina di Cronenberg (Keira Knightley at her best) poi, personalmente mi ha accompagnato in un periodo molto importante della mia vita. Formazione. Conoscenza. Approfondimento. Un aspirante discepolo in un territorio, quello della Medicina, molto parco di maestri. E no, non sceglierò uno o l’altro film, con un elenco di motivazioni – “10 motivi per cui preferisco Cronenberg a Faenza”, o viceversa, suona un tantino ridicolo. Della versione di Cronenberg, resta a fior di pelle la ricostruzione metodica apparentemente fredda e distaccata, che poi esplode nel parossismo del sesso e del sentimento (dualismo così squisitamente novecentesco!); della versione di Faenza, ciò che a me resta è l’indimenticabile Thumbalalaika, la canzone danzando la quale l’attrice Emilia Fox tratteggia in modo dolcemente mitico questa Sabina Spielrein fatta di dolcezza, repressione e desiderio di guarigione e superamento di se stessa (e qui, dare un’occhiata all’idea del Übermensch, anche questa decisamente novecentesca) e lo studio delle luci curato da Maurizio Calvesi, che fa somigliare tutto a un sogno belle époque. Ciò che mi preme sottolineare, e che credo sia valido per chiunque abbia visto entrambi o uno dei due film, è la ricchezza di questa straordinaria esperienza umana, quella di Sabina Spielrein e Jung, di cui questi documenti, libri e film rappresentano immagini molto preziose.


Niky D'Attoma studia Medicina e Chirugia presso l'Università di Bari e si occupa di regia e drammaturgia con l'associazione Marienbad Teatro. Tra il 2012 e il 2013 ha collaborato con la rivista internazionale Les Cahiers Européens de l'Imaginaire. Dal 2014 ha intrapreso una collaborazione con la cattedra di Ermeneutica Filosofica del prof. F. De Natale (Università di Bari) per il quale cura una serie di seminari con gli studenti. La sua opera prima è attualmente in corso di pubblicazione.

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