sabato 9 gennaio 2016

Il gatto a nove code: il vero, grande «giallo» di Dario Argento



Una città che nello sguardo dello spettatore è impossibile da catturare per intero, animata da scorci in interno e passages in esterno. Questa è la Torino de Il gatto a nove code, precorritrice delle città-puzzle che caratterizzeranno i lavori successivi di Dario Argento. Secondo quest’approccio luoghi provenienti da città diverse (Roma, Torino, New York, tra le più ricorrenti) vanno a costituirne uno solo, immaginato e realizzato per la storia raccontata. Ne Il gatto a nove code, Torino è ammantata da un’atmosfera noir tutta costruita sulla tensione e sull’impossibilità di cogliere per intero i dettagli necessari alla risoluzione degli eventi: una lite in strada, una discussione dentro un’automobile in movimento. E ancora le scale: ossessione di tutto il cinema di Dario Argento, che qui assumono un’allure a metà fra espressionismo e surrealismo, le camere dell’istituto scientifico dove è ambientata la vicenda, il cui operato è celato da ante socchiuse, soffitte polverose, finestroni e persino tetti industriali. 



sabato 24 ottobre 2015

Note sul gotico in Crimson Peak di Guillermo del Toro (2015)






Una magione che sprofonda su un giacimento di argilla rossa come sangue, al centro di una tenuta aspra e inospitale dove vento e umidità animano spifferi e cigolii. Al suo interno si muove una «vergine perseguitata», con l’orlo della camicia da notte che accarezza le assi tarlate del pavimento, i capelli che si aprono come ali nella corsa e le mani bianche che frugano in armadi intarsiati, sotto enormi poltrone di broccato, alla ricerca delle più scellerate risposte. È questa la prospettiva scelta dall’«ospite ingrato» del cinema hollywoodiano, Guillermo del Toro, per il suo ultimo lungometraggio Crimson Peak
Guillermo del Toro non sceglie solo l’immaginario gotico ma lo sposa, omaggiandolo nei suoi intenti originari. In Crimson Peak ritroviamo la comunione, alla base del romanzo gotico settecentesco, fra elementi romantici e attitudine all’orrore. Il film è un percorso verticale – come quello che vede i protagonisti muoversi fra i piani della grottesca magione di Allerdale Hall – nella tradizione gotica tutta. 

domenica 30 agosto 2015

It Follows di David Robert Mitchell (2014)


Quante volte abbiamo lamentato lo sfiatamento della produzione cinematografica orrorifica?
Idee formali sfruttate fino a diventare lise e fragilissime (sospiro assicurato ogni volta che leggiamo POV), sequel, prequel, spin-off, riadattamenti, ritorni dall’oltretomba che toccherà riqualificare persino il cimitero di Pet Sematary.
In questo contesto capita che siano prodotte e realizzate pellicole in grado di farci tornare in pace col genere, originali nelle idee, nelle scelte formali e con un sano rapporto nei confronti dei classici. È successo con It Follows del giovane e brillante regista americano David Robert Mitchell (The Myth of the American Sleepover) che ha trovato subito il suo posto nella migliore tradizione dell’horror e del thrilling.
 Ambientato a Detroit, nella zona suburbana, It Follows segue le vicende di Jay Height (Maika Monroe, chiaramente la migliore scream queen indie), studentessa dalla famiglia incasinata che, dopo aver fatto l’amore con lo strano forte Hugh (ricordiamoci di non uscire con gente che pensa di essere seguita da figure che noi non riusciamo a vedere), si ritrova a essere perseguitata da un’entità in grado di seguirla (lentamente ma con incrollabile costanza) ovunque, con il dichiarato intento di farle del male.

domenica 21 giugno 2015

XXI Secolo di Paolo Zardi: la sconfitta dell'uomo come padre



L’entusiasmo è stato grande. Vedere un romanzo della casa editrice NEO. – le cui proposte hanno costruito in breve tempo un catalogo fra i più vitali, eterodossi e sperimentali avuti negli ultimi anni in Italia – nella rosa delle dodici scelte del comitato direttivo del Premio Strega 2015 è stata una delle più belle sorprese sulla scena editoriale contemporanea. Un segnale non trascurabile, un presagio di buon auspicio e un grande stimolo per Francesco Coscioni e Angelo Biasella a continuare con immutata determinazione a lavorare sul loro progetto editoriale.
Il romanzo in questione è XXI SECOLO di Paolo Zardi, ingegnere padovano che amammo non poco per il libro di racconti Antropometria che ci portò nei territori del perturbante e del grottesco. Ambientato in un futuro che con un brivido avvertiamo nelle immediate vicinanze, XXI SECOLO è il racconto epico di una sconfitta. In un’Italia sfiatata a sud di un continente in decadenza, soffocata dalla bolla mediale

Il giorno in cui trovò il telefono aveva smesso di piovere. […] il fantino era morto, e la Cina aveva raddoppiato i carri armati sulle sponde dell’Amur, provocando lo sdegno dello zar di Russia. Ma nessuno sapeva se in Russia ci fosse davvero lo Zar. Da un po’ le notizie concepivano un universo parallelo, virtuale, e pieno di contraddizioni. La gente aveva perso interesse per la realtà, la subiva con la consapevolezza che le cose andassero male, e non ci si poteva fare nulla.

assistiamo alla corrosione di un modello, al canto del cigno dell’uomo come padre, fulcro e protettore del nucleo familiare. Il protagonista che Paolo Zardi ci propone in terza persona come unico personaggio-pdv (punto di vista) assiste all’implosione lenta ma immane e inesorabile dell’Occidente mentre è tradito dalla base su cui si fonda tutta la sua esistenza: la propria famiglia.

lunedì 8 giugno 2015

Prendimi l’anima o A dangerous Method?



Credo che poche volte nella storia del Cinema si sia stati davanti a una situazione del genere: ovvero alla trasposizione cinematografica di una storia realmente accaduta, sulla base di una serie di documenti scritti e fotografici, e di libri che sono stati, per entrambi i film, il punto di partenza. Multiformi non sono soltanto i media di riferimento; ma anche il soggetto. È un soggetto che riguarda la Storia, la Medicina, la nascente Psicologia/Psichiatria, ma anche l’amore e le passioni – un soggetto unico. Perché è un microcosmo capace di racchiudere buona parte della cultura borghese europea: la complessità dei rapporti familiari, la complessità del rapporto uomo-donna, la complessità del rapporto docente/discente, l’idea del progresso del pensiero, lo strano confine tra normalità, malattia e medicina. Se ne potrebbe parlare molto; non se n’è, forse, parlato abbastanza. Ma quando Sabina Spielrein varcò la soglia dell’ospedale in cui il giovane medico Carl Jung lavorava, varcò di fatto la soglia della Storia. Sul rapporto tra Spielrein e Jung, e sulla successiva triangolazione che coinvolse Freud, si sono scritti libri molto approfonditi e che valgono una lettura attenta e interessata. E il cinema? No, il cinema non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione di rappresentare questa storia. Una stessa storia che ha ispirato due film molto diversi. L’italiano Prendimi l’anima, di Roberto Faenza, uscito nelle sale nel 2002; e A dangerous method, di David Cronenberg, del 2011. 


Partire dal titolo può mettere in luce degli aspetti molto interessanti. Prendimi l’anima: il verbo è all’imperativo; è l’invito, la richiesta, la preghiera alla cura. Cura e amore sono fusi insieme, nello stesso movimento che è quello di afferrare, non per recidere ma per salvare l’altro dalla follia. Mentre per Cronenberg si tratta di un metodo (attenzione: non del metodo, ma di un metodo) pericoloso. Tutto qui. C’è pericolo. E c’è metodo. Si sottolinea che il rapporto di cura è un rapporto rischioso, che tuttavia presuppone un protocollo. Quanto sia rigido questo protocollo, beh, questo è un altro paio di maniche… 
Avevo nemmeno vent’anni quando ho visto Prendimi L’anima. La storia di Sabina, di questo amore impossibile e tuttavia fondamentale per lei e per Carl Gustav (quando ancora non era C.G. Jung), la realizzazione personale di una ragazza malata, così prossima alla perdizione quanto alla remissione, capace di parlare lo stesso linguaggio degli adulti e dei bambini – come avrebbe potuto non affascinarmi? Anch’io cercavo un’identità, all’epoca. E poi questo nome, Sabina, così ricorrente nelle opere di Anais Nin, prima paziente e poi psicanalista ella stessa, proprio come la Spielrein, ma con un vissuto molto diverso… Otto anni dopo, ancora Sabina Spielrein, ancora Jung e Freud, questa volta nella visione completamente diversa di Cronenberg. Chi scegliere? Molti si sono posti questo interrogativo, un interrogativo retorico perché, per chi conosce Prendimi l’anima, è sicuramente preferibile alla trasposizione di Cronenberg: è più romantica, più dolce, più serena, meno dispersiva, meno violenta, molto meno violenta. Ma forse non è il caso di fare una scelta così affrettata, prima di aver fatto un paio di considerazioni sulle differenze tra i due film. 

Le differenze più grandi, tra i due film, sono di due ordini. 

domenica 17 maggio 2015

Mad Max: Fury Road l’action movie definitivo e lo sguardo di genere



Visionario, messianico, inaspettato, lanciato alla massima velocità in una nuvola di ocra e carminio, ecco cos’è Mad Max: Fury Road, pantagruelico progetto di George Miller che riporta dopo trent’anni sul grande schermo Max Rockatansky e con lui l’immaginario impazzito e post apocalittico che ha fatto scuola per tanto cinema a venire.
Mad Max: Fury Road non è un mero reboot che vive dell’afflato nostalgico dei vecchi fan della saga ma un aggiornamento dell’immaginario che propone. Un’operazione che oggi possiamo ammirare sul grande schermo come estrema e meravigliosa, sia sotto il punto di vista della scrittura sia della regia. Se l’obiettivo era di portare nuovi spettatori ad appassionarsi al mondo «ucciso» e dissennato di Mad Max, possiamo definirlo ampiamente raggiunto.
Le tragedie e i morti delle pellicole precedenti oggi si manifestano intorno a Max –interpretato per la prima volta da Tom Hardy - come pericolose allucinazioni sempre pronte a ossessionarlo durante il suo cammino. Il Max di Fury Road possiede le caratteristiche mostrate per la prima volta in Il guerriero della strada: un uomo che ha rinunciato alla sua umanità, trincerato dietro il bieco opportunismo con l’unico obiettivo di continuare a vivere e quindi a muoversi sulla strada.

sabato 11 aprile 2015

Supernova: la nuova ballata rock di Isabella Santacroce



Una supernova su Riccione.

Dopo l’uscita dell’ultimo romanzo di Isabella Santacroce, il magnifico Supernova (Mondadori) mi aspettavo di vedere il viso della scrittrice riccionese, sublimato dal trucco che le fa da difesa e dissimulazione, sulla copertina di «Rolling Stone». Supernova, che inaugura la nuova Trilogia di Eva è una stupenda ballata rock, dove l’uso della lingua italiana assume sempre più una forma ritmica peculiare. La prosa di Isabella Santacroce si dilata e comprime come una serie di note, vergate con grande ispirazione dalla sua compositrice/autrice.
In Supernova troviamo l’uso della metafora in trasfigurazioni che sono di volta in volta fiabesche, sfrenate e dolorose. Metafore dall’incredibile potere evocativo che ampliano d’improvviso l’orizzonte narrativo del brano in cui sbocciano. Dall’arrivo della non-madre di Dorothy a Milano – una città che farà da ventre ignavo e scellerato per i tre giovani protagonisti – fino all’adolescenza tradita da un’infanzia di rifiuti, seguiamo il canto di Dorothy nella descrizione della sua parabola ascensionale, verso l’esplosione nella luce più accecante auspicata dal titolo.