Una città
che nello sguardo dello spettatore è impossibile da catturare per intero, animata
da scorci in interno e passages in
esterno. Questa è la Torino de Il gatto a nove code, precorritrice
delle città-puzzle che caratterizzeranno i lavori successivi di Dario Argento.
Secondo quest’approccio luoghi provenienti da città diverse (Roma, Torino, New
York, tra le più ricorrenti) vanno a costituirne uno solo, immaginato e
realizzato per la storia raccontata. Ne Il
gatto a nove code, Torino è ammantata da un’atmosfera noir tutta costruita sulla tensione e sull’impossibilità di cogliere
per intero i dettagli necessari alla risoluzione degli eventi: una lite in strada,
una discussione dentro un’automobile in movimento. E ancora le scale: ossessione
di tutto il cinema di Dario Argento, che qui assumono un’allure a metà fra espressionismo e surrealismo, le camere
dell’istituto scientifico dove è ambientata la vicenda, il cui operato è celato
da ante socchiuse, soffitte polverose, finestroni e persino tetti industriali.
ONLY RECENSIONI TO PLAY WITH
Un vizio di forma
sabato 9 gennaio 2016
sabato 24 ottobre 2015
Note sul gotico in Crimson Peak di Guillermo del Toro (2015)
Una magione che sprofonda su un
giacimento di argilla rossa come sangue, al centro di una tenuta aspra e
inospitale dove vento e umidità animano spifferi e cigolii. Al suo interno si
muove una «vergine perseguitata», con l’orlo della camicia da notte che
accarezza le assi tarlate del pavimento, i capelli che si aprono come ali
nella corsa e le mani bianche che frugano in armadi intarsiati, sotto enormi
poltrone di broccato, alla ricerca delle più scellerate risposte. È questa la
prospettiva scelta dall’«ospite ingrato» del cinema hollywoodiano, Guillermo del Toro, per il suo ultimo
lungometraggio Crimson Peak.
Guillermo del Toro non sceglie solo l’immaginario
gotico ma lo sposa, omaggiandolo nei suoi intenti originari. In Crimson Peak ritroviamo la comunione,
alla base del romanzo gotico settecentesco, fra elementi romantici e
attitudine all’orrore. Il film è un percorso verticale – come quello che vede i
protagonisti muoversi fra i piani della grottesca magione di Allerdale Hall – nella
tradizione gotica tutta.
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domenica 30 agosto 2015
It Follows di David Robert Mitchell (2014)
Quante volte
abbiamo lamentato lo sfiatamento della produzione cinematografica orrorifica?
Idee formali
sfruttate fino a diventare lise e fragilissime (sospiro assicurato ogni volta
che leggiamo POV), sequel, prequel, spin-off, riadattamenti, ritorni dall’oltretomba
che toccherà riqualificare persino il cimitero di Pet Sematary.
In questo contesto capita che siano prodotte e realizzate pellicole in grado di farci tornare in pace col genere, originali nelle idee, nelle scelte formali e con un sano rapporto nei confronti dei classici. È successo con It Follows del giovane e brillante regista americano David Robert Mitchell (The Myth of the American Sleepover) che ha trovato subito il suo posto nella migliore tradizione dell’horror e del thrilling.
In questo contesto capita che siano prodotte e realizzate pellicole in grado di farci tornare in pace col genere, originali nelle idee, nelle scelte formali e con un sano rapporto nei confronti dei classici. È successo con It Follows del giovane e brillante regista americano David Robert Mitchell (The Myth of the American Sleepover) che ha trovato subito il suo posto nella migliore tradizione dell’horror e del thrilling.
Ambientato
a Detroit, nella zona suburbana, It
Follows segue le vicende di Jay Height (Maika Monroe, chiaramente la
migliore scream queen indie),
studentessa dalla famiglia incasinata che, dopo aver fatto l’amore con lo
strano forte Hugh (ricordiamoci di non uscire con gente
che pensa di essere seguita da figure che noi non riusciamo a vedere), si
ritrova a essere perseguitata da un’entità in grado di seguirla (lentamente ma
con incrollabile costanza) ovunque, con il dichiarato intento di farle del
male.
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domenica 21 giugno 2015
XXI Secolo di Paolo Zardi: la sconfitta dell'uomo come padre
L’entusiasmo
è stato grande. Vedere un romanzo della casa editrice NEO. – le cui proposte
hanno costruito in breve tempo un catalogo fra i più vitali, eterodossi e
sperimentali avuti negli ultimi anni in Italia – nella rosa delle dodici scelte
del comitato direttivo del Premio Strega 2015 è stata una delle più belle
sorprese sulla scena editoriale contemporanea. Un segnale non trascurabile, un
presagio di buon auspicio e un grande stimolo per Francesco Coscioni e Angelo Biasella
a continuare con immutata determinazione a lavorare sul loro progetto
editoriale.
Il
romanzo in questione è XXI SECOLO di Paolo Zardi, ingegnere
padovano che amammo non poco per il libro di racconti Antropometria che ci portò nei territori del perturbante e del
grottesco. Ambientato in un futuro che con un brivido avvertiamo nelle
immediate vicinanze, XXI SECOLO è il
racconto epico di una sconfitta. In un’Italia sfiatata a sud di un continente
in decadenza, soffocata dalla bolla mediale
Il
giorno in cui trovò il telefono aveva smesso di piovere. […] il fantino era
morto, e la Cina aveva raddoppiato i carri armati sulle sponde dell’Amur,
provocando lo sdegno dello zar di Russia. Ma nessuno sapeva se in Russia ci
fosse davvero lo Zar. Da un po’ le notizie concepivano un universo parallelo,
virtuale, e pieno di contraddizioni. La gente aveva perso interesse per la
realtà, la subiva con la consapevolezza che le cose andassero male, e non ci si
poteva fare nulla.
assistiamo
alla corrosione di un modello, al canto del cigno dell’uomo come padre, fulcro
e protettore del nucleo familiare. Il protagonista che Paolo Zardi ci propone
in terza persona come unico personaggio-pdv (punto di vista) assiste all’implosione
lenta ma immane e inesorabile dell’Occidente mentre è tradito dalla base
su cui si fonda tutta la sua esistenza: la propria famiglia.
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lunedì 8 giugno 2015
Prendimi l’anima o A dangerous Method?
Credo che poche volte nella storia del Cinema si sia stati davanti a una situazione del genere: ovvero alla trasposizione cinematografica di una storia realmente accaduta, sulla base di una serie di documenti scritti e fotografici, e di libri che sono stati, per entrambi i film, il punto di partenza. Multiformi non sono soltanto i media di riferimento; ma anche il soggetto. È un soggetto che riguarda la Storia, la Medicina, la nascente Psicologia/Psichiatria, ma anche l’amore e le passioni – un soggetto unico. Perché è un microcosmo capace di racchiudere buona parte della cultura borghese europea: la complessità dei rapporti familiari, la complessità del rapporto uomo-donna, la complessità del rapporto docente/discente, l’idea del progresso del pensiero, lo strano confine tra normalità, malattia e medicina. Se ne potrebbe parlare molto; non se n’è, forse, parlato abbastanza. Ma quando Sabina Spielrein varcò la soglia dell’ospedale in cui il giovane medico Carl Jung lavorava, varcò di fatto la soglia della Storia. Sul rapporto tra Spielrein e Jung, e sulla successiva triangolazione che coinvolse Freud, si sono scritti libri molto approfonditi e che valgono una lettura attenta e interessata. E il cinema? No, il cinema non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione di rappresentare questa storia. Una stessa storia che ha ispirato due film molto diversi. L’italiano Prendimi l’anima, di Roberto Faenza, uscito nelle sale nel 2002; e A dangerous method, di David Cronenberg, del 2011.
Partire dal titolo può mettere in luce degli aspetti molto interessanti. Prendimi l’anima: il verbo è all’imperativo; è l’invito, la richiesta, la preghiera alla cura. Cura e amore sono fusi insieme, nello stesso movimento che è quello di afferrare, non per recidere ma per salvare l’altro dalla follia. Mentre per Cronenberg si tratta di un metodo (attenzione: non del metodo, ma di un metodo) pericoloso. Tutto qui. C’è pericolo. E c’è metodo. Si sottolinea che il rapporto di cura è un rapporto rischioso, che tuttavia presuppone un protocollo. Quanto sia rigido questo protocollo, beh, questo è un altro paio di maniche…
Avevo nemmeno vent’anni quando ho visto Prendimi L’anima. La storia di Sabina, di questo amore impossibile e tuttavia fondamentale per lei e per Carl Gustav (quando ancora non era C.G. Jung), la realizzazione personale di una ragazza malata, così prossima alla perdizione quanto alla remissione, capace di parlare lo stesso linguaggio degli adulti e dei bambini – come avrebbe potuto non affascinarmi? Anch’io cercavo un’identità, all’epoca. E poi questo nome, Sabina, così ricorrente nelle opere di Anais Nin, prima paziente e poi psicanalista ella stessa, proprio come la Spielrein, ma con un vissuto molto diverso… Otto anni dopo, ancora Sabina Spielrein, ancora Jung e Freud, questa volta nella visione completamente diversa di Cronenberg. Chi scegliere? Molti si sono posti questo interrogativo, un interrogativo retorico perché, per chi conosce Prendimi l’anima, è sicuramente preferibile alla trasposizione di Cronenberg: è più romantica, più dolce, più serena, meno dispersiva, meno violenta, molto meno violenta. Ma forse non è il caso di fare una scelta così affrettata, prima di aver fatto un paio di considerazioni sulle differenze tra i due film.
Le differenze più grandi, tra i due film, sono di due ordini.
Partire dal titolo può mettere in luce degli aspetti molto interessanti. Prendimi l’anima: il verbo è all’imperativo; è l’invito, la richiesta, la preghiera alla cura. Cura e amore sono fusi insieme, nello stesso movimento che è quello di afferrare, non per recidere ma per salvare l’altro dalla follia. Mentre per Cronenberg si tratta di un metodo (attenzione: non del metodo, ma di un metodo) pericoloso. Tutto qui. C’è pericolo. E c’è metodo. Si sottolinea che il rapporto di cura è un rapporto rischioso, che tuttavia presuppone un protocollo. Quanto sia rigido questo protocollo, beh, questo è un altro paio di maniche…
Avevo nemmeno vent’anni quando ho visto Prendimi L’anima. La storia di Sabina, di questo amore impossibile e tuttavia fondamentale per lei e per Carl Gustav (quando ancora non era C.G. Jung), la realizzazione personale di una ragazza malata, così prossima alla perdizione quanto alla remissione, capace di parlare lo stesso linguaggio degli adulti e dei bambini – come avrebbe potuto non affascinarmi? Anch’io cercavo un’identità, all’epoca. E poi questo nome, Sabina, così ricorrente nelle opere di Anais Nin, prima paziente e poi psicanalista ella stessa, proprio come la Spielrein, ma con un vissuto molto diverso… Otto anni dopo, ancora Sabina Spielrein, ancora Jung e Freud, questa volta nella visione completamente diversa di Cronenberg. Chi scegliere? Molti si sono posti questo interrogativo, un interrogativo retorico perché, per chi conosce Prendimi l’anima, è sicuramente preferibile alla trasposizione di Cronenberg: è più romantica, più dolce, più serena, meno dispersiva, meno violenta, molto meno violenta. Ma forse non è il caso di fare una scelta così affrettata, prima di aver fatto un paio di considerazioni sulle differenze tra i due film.
Le differenze più grandi, tra i due film, sono di due ordini.
domenica 17 maggio 2015
Mad Max: Fury Road l’action movie definitivo e lo sguardo di genere
Visionario,
messianico, inaspettato, lanciato alla massima velocità in una nuvola di ocra e
carminio, ecco cos’è Mad Max: Fury Road, pantagruelico
progetto di George Miller che
riporta dopo trent’anni sul grande schermo Max Rockatansky e con lui
l’immaginario impazzito e post apocalittico che ha fatto scuola per tanto
cinema a venire.
Mad
Max: Fury Road non è
un mero reboot che vive dell’afflato
nostalgico dei vecchi fan della saga ma un aggiornamento dell’immaginario che
propone. Un’operazione che oggi possiamo ammirare sul grande schermo come estrema
e meravigliosa, sia sotto il punto di vista della scrittura sia della regia. Se
l’obiettivo era di portare nuovi spettatori ad appassionarsi al mondo «ucciso»
e dissennato di Mad Max, possiamo definirlo ampiamente
raggiunto.
Le
tragedie e i morti delle pellicole precedenti oggi si manifestano intorno a Max
–interpretato per la prima volta da Tom Hardy - come pericolose allucinazioni sempre pronte a
ossessionarlo durante il suo cammino. Il Max di Fury Road possiede le caratteristiche mostrate per la prima volta
in Il guerriero della strada: un uomo
che ha rinunciato alla sua umanità, trincerato dietro il bieco opportunismo con
l’unico obiettivo di continuare a vivere e quindi a muoversi sulla strada.
sabato 11 aprile 2015
Supernova: la nuova ballata rock di Isabella Santacroce
Una supernova su Riccione. |
Dopo
l’uscita dell’ultimo romanzo di Isabella Santacroce, il magnifico Supernova (Mondadori) mi aspettavo di vedere il viso della scrittrice riccionese,
sublimato dal trucco che le fa da difesa e dissimulazione, sulla copertina di
«Rolling Stone». Supernova, che
inaugura la nuova Trilogia di Eva è una stupenda ballata rock, dove l’uso
della lingua italiana assume sempre più una forma ritmica peculiare. La prosa
di Isabella Santacroce si dilata e comprime come una serie di note, vergate con
grande ispirazione dalla sua compositrice/autrice.
In Supernova troviamo l’uso della metafora
in trasfigurazioni che sono di volta in volta fiabesche, sfrenate e dolorose.
Metafore dall’incredibile potere evocativo che ampliano d’improvviso
l’orizzonte narrativo del brano in cui sbocciano. Dall’arrivo della non-madre
di Dorothy a Milano – una città che farà da ventre ignavo e scellerato per i
tre giovani protagonisti – fino all’adolescenza tradita da un’infanzia di
rifiuti, seguiamo il canto di Dorothy nella descrizione della sua parabola
ascensionale, verso l’esplosione nella luce più accecante auspicata dal titolo.
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