martedì 10 luglio 2012

Grace Jones, Keith Haring e il vampirismo anni Ottanta: Vamp di Richard Wenk (1986)


Ogni volta che mi trovo di fronte a un film come Vamp (1985) ripenso alle parole usate da Lansdale nel saggio Eccitarsi per l’horror: emozioni a basso costo in cui il padre di Hap e Leonard spiega al lettore la differenza tra un b-movie buono e uno cattivo. Secondo Lansdale la discriminante è la sfrenata energia priva di pretese con cui certe pellicole sono in grado di mettere in scena le proprie idee giocando con immaginari e materiali propri della cultura pop. Vamp dimostra di possedere quest’energia già dall’introduzione: una sequenza da horror classico seguita presto da un ribaltamento/disvelamento del trucco cinematografico. Dopo pochi minuti scopriamo che il convento medievale e le figure incappucciate che iniziavano giusto a turbarci altro non sono che un campus dall’austera architettura gotica e un gruppo di beoti campy alle prese con un’iniziazione da confraternita. Il disvelamento avviene per opera dei due protagonisti, Chris “occhio glauco” Makepeace e Robert Rusler (nel film rispettivamente Keith e AJ), che stanchi della messa in scena (ma sempre desiderosi di vivere in uno dei lussuosi alloggi della confraternita) si ritrovano a dover cercare una spogliarellista per la serata. Recuperato il collega ricco e nerd Duncan (Gedda Watanabe), i due raggiungono l’After Dark, locale per soli adulti dalla pericolosa allure.

Keith e Grace preparano Katrina.
 Vamp è un esempio di come il cinema pop (nelle sue diverse manifestazioni all’interno dei generi), durante gli anni Ottanta e Novanta, abbia lavorato su certe idee provenienti dai fiorenti studi sociali e studi etnici per costruire stereotipi cinematografici. In particolare le due etnie qui rappresentate sono l’afroamericana e l’asiatica. Se quest’ultima è sintetizzata nella figura di Duncan, nerd esperto di computer ma socialmente disadattato (cui mancano sostanzialmente i valori americani della socialità e della condivisione alla pari), la prima è descritta come violenta, immortale e in cerca di vendetta. L’esotismo del «buon selvaggio» è qui riscritto con grande creatività dalla coppia Grace Jones-Keith Haring. L’artista che ha rivoluzionato l’idea del graffito ritorna alle origini della tecnica prediletta lavorando sul corpo statuario della già musa di Jean-Paul Goude per creare insieme Katrina. È questa una ieratica dea egizia assetata di sangue, folle, primordiale, fiera e ferina. A lei arriveranno Keith, AJ e Duncan, non prima di aver incontrato una banda di non-vampiri - il cui leader cita smaccatamente il David Bowie di Miriam si sveglia a mezzanotte - e aver lottato con loro sulle note di In the blue, painted blue di Domenico Modugno (tra l’altro incisa lo stesso anno proprio da Bowie!).
Il film è una cornucopia di citazioni: la dismessa cultura dei crooner, la bambina vampira mutata dalla narrativa di Anne Rice, la prima Madonna nella figura della giovane spogliarellista Amaretto. Merita però particolare menzione il numero di Katrina sul palco dell’After Dark insieme a una scultura di Keith Haring. È questa una narrazione priva di parole, sensuale, allo stesso tempo ancestrale, arty e contemporanea. Essa da sola vale la visione di tutto il film. Il resto è dialoghi serratissimi e ben calibrati (come quelli del confronto fra i due amici irrimediabilmente “divisi” da Katrina), scenografie al neon come d’usanza all’epoca e una ricca fauna di non-morti a tanto così dall’iniziare a ballare sulle note di Thriller.

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