Ogni volta che mi trovo di fronte a un film come
Vamp
(1985) ripenso alle parole usate da
Lansdale nel saggio
Eccitarsi per l’horror: emozioni a basso costo in cui il padre di
Hap e Leonard spiega al lettore la differenza tra un b-movie buono e uno cattivo.
Secondo Lansdale la discriminante è la sfrenata energia priva di pretese con
cui certe pellicole sono in grado di mettere in scena le proprie idee giocando
con immaginari e materiali propri della cultura pop.
Vamp dimostra di possedere quest’energia già dall’introduzione: una
sequenza da horror classico seguita presto da un ribaltamento/disvelamento del
trucco cinematografico. Dopo pochi minuti scopriamo che il convento medievale e
le figure incappucciate che iniziavano giusto a turbarci altro non sono che un
campus dall’austera architettura gotica e un gruppo di beoti
campy alle prese con un’iniziazione da
confraternita. Il disvelamento avviene per opera dei due protagonisti, Chris
“occhio glauco” Makepeace e Robert Rusler (nel film rispettivamente Keith e AJ),
che stanchi della messa in scena (ma sempre desiderosi di vivere in uno dei
lussuosi alloggi della confraternita) si ritrovano a dover cercare una
spogliarellista per la serata. Recuperato il collega ricco e nerd Duncan (Gedda
Watanabe), i due raggiungono l’
After Dark,
locale per soli adulti dalla pericolosa
allure.
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Keith e Grace preparano Katrina. |
Vamp è un esempio di come il cinema pop
(nelle sue diverse manifestazioni all’interno dei generi), durante gli anni
Ottanta e Novanta, abbia lavorato su certe idee provenienti dai fiorenti studi
sociali e studi etnici per costruire stereotipi cinematografici. In particolare
le due etnie qui rappresentate sono l’afroamericana e l’asiatica. Se
quest’ultima è sintetizzata nella figura di Duncan, nerd esperto di computer ma
socialmente disadattato (cui mancano sostanzialmente i valori americani della
socialità e della condivisione alla pari), la prima è descritta come violenta,
immortale e in cerca di vendetta. L’esotismo del «buon selvaggio» è qui
riscritto con grande creatività dalla coppia
Grace Jones-
Keith Haring.
L’artista che ha rivoluzionato l’idea del graffito ritorna alle origini della
tecnica prediletta lavorando sul corpo statuario della già musa di Jean-Paul
Goude per creare insieme
Katrina. È questa
una ieratica dea egizia assetata di sangue, folle, primordiale, fiera e ferina.
A lei arriveranno Keith, AJ e Duncan, non prima di aver incontrato una banda di
non-vampiri - il cui leader cita smaccatamente il David Bowie di
Miriam si sveglia a mezzanotte - e aver lottato
con loro sulle note di
In the blue,
painted blue di Domenico Modugno (tra l’altro incisa lo stesso anno proprio
da Bowie!).
Il film è una cornucopia di citazioni: la dismessa cultura dei
crooner, la bambina vampira mutata dalla
narrativa di Anne Rice, la prima Madonna nella figura della giovane spogliarellista Amaretto. Merita però particolare menzione il
numero di Katrina sul palco dell’After Dark insieme a
una scultura di Keith Haring. È questa una narrazione priva di parole, sensuale,
allo stesso tempo ancestrale,
arty e
contemporanea. Essa da sola vale la visione di tutto il film. Il resto è
dialoghi serratissimi e ben calibrati (come quelli del confronto fra i due
amici irrimediabilmente “divisi” da Katrina), scenografie al neon come d’usanza
all’epoca e una ricca fauna di non-morti a tanto così dall’iniziare a ballare
sulle note di
Thriller.
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