sabato 19 gennaio 2013

Django Unchained di Quentin Tarantino (2012)


Tanta l’attesa, come la fiumana di parole che sono state scritte – la maggior parte senza aver ancora visto il film, spesso in stile recensione preventiva di «Libero» - ma è qui, è finalmente in sala, il nuovo film di Quentin Tarantino, Django Unchained che, diciamolo subito, non è un semplice «omaggio al genere spaghetti western» (che diavolo di parola è poi «omaggio»?!), tanto più che Tarantino ha dimostrato di aver metabolizzato e coniugato geneticamente lo spaghetti western nel suo cinema già a partire da Le Iene. Come in uso nello spaghetti western, il regista di Pulp Fiction recupera uno dei nomi dei personaggi-tipo, Django appunto, originariamente creato dal genio di Sergio Corbucci nell'omonimo, cupissimo e senza remissione, film del 1966. Come allora il nome del personaggio è un’evocazione utile a richiamare alla mente dello spettatore l’immaginario ma che poi ha poco a che vedere con il pistolero che si trascina dietro una bara, interpretato da Franco Nero. Tarantino apre il suo film sulle note del tema del Django di Corbucci. Il brano di Luis Bacalov e Rocky Roberts introduce il personaggio di Django, recuperando la desolazione del paesaggio in cui allora si muoveva il pistolero, paesaggio oggi attraversato dal Django schiavo in catene di Tarantino, interpretato con coolness inaudita da Jamie Foxx. Il regista di Kill Bill realizza una splendida e immane opera che – come Bastardi senza gloria – s’incista nella storia per rimaneggiarla e affrescarla in maniera minuziosa, complessa e spassosissima, restituendola allo spettatore sotto forma di nuova mitologia. Questa volta la riscrittura rivoluzionaria della storia, dopo il totalitarismo nazista di Bastardi senza gloria, si rivolge allo schiavismo, alla sua perpetrazione e declinazione nell'orrore quotidiano. Siamo nel sud degli Stati Uniti (Texas), alle porte della guerra civile americana.

Candyland: si stabiliscono i rapporti di forza.
È interessante come gli equilibri di forza realizzati nel dialogo, la potenza dell’informazione, della parola e il gioco verbale siano centrali nello svolgimento e nella risoluzione del film. A colpire davvero in Django Unchained è la stupefacente e tensiva sciarada dialogica messa in atto dai personaggi, in particolare dall'eccezionale Dr King Schultz – immigrato tedesco, ex medico e cacciatore di taglie, stomacato dallo schiavismo – interpretato magistralmente da Christoph Waltz (che dopo il colonnello Hans Landa, aspettavamo in un ruolo dalla parte dei buoni), e dal mefistofelico proprietario terriero Calvin J. Candie, interpretato dal sempre più amato Leonardo DiCaprio (che ritroveremo ne IlGrande Gatsby di Baz Luhrmann). La violenza, il sangue (quello schizzo che cambiò il cinema negli anni Novanta), sono emanazioni e conseguenza del vero scontro, che in Django Unchained è tutto verbale, in particolar modo a tavola, durante la cena a Candyland - introdotta da una sequenza gotica ed evocativa sulle note della meravigliosa Ancora qui scritta da Ennio Morricone ed Elisa (che la interpreta) – fra Schultz, Candle, Django e l’orribile e demoniaco schiavo Stephen (un Samuel L. Jackson da brividi).
La matrice blaxploitation, la rappresentazione “altra” della storia, il buddy movie, la fiaba proppiana, una regia magistrale e inappuntabile, un cast in stato di grazia (in cui spicca la bellissima Kerry Washington), tutto concorre a fare di Django Unchained un grande capolavoro, divertente, popolare e generatore di mitologia. Un film esaltato – come sempre avviene nelle prove di Tarantino – da una straordinaria colonna sonora, che oltre al Django di Bacalov e Rocky Roberts e il tema di Morricone ed Elisa, propone la splendida e funky Freedom di Anthony Hamilton ed Elayna Boynton, l’ultra hype di Who did that to you? Di John Legend e il mash up Unchained in cui si incontrano James Brown e Tupac Shakur.

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