sabato 1 dicembre 2012

L'impero familiare delle tenebre future di Andrea Gentile (2012)


Sono il ritmo, la ripetizione a condurre e introdurre il lettore alla visione pluridimensionale, vorticosa e sincopata di Andrea Gentile in L’impero familiare delle tenebre future (Il Saggiatore). Un ritmo che investe la narrazione di un’aura che è stata ed è tipica della tradizione orale, un racconto mesmerizzante in cui trovano spazio la filastrocca e la canzone. È ancora il ritmo a produrre nel lettore una pulsatile sensazione di premonizione, millenaristica eppure personale, l’incombere di un apocalittico scontro fra bene e male. L’io narrante e femminile de «L’impero» è imprigionato in una serie di eventi che sono contenuti in una sensazione: «la nausea», che attanaglia e amplifica a ondate la sua ossessione e la sua dolorosa impotenza. Questi eventi che sono poi visioni affastellate prendono forma da Masserie di Cristo, un luogo mitico, in un sud necrotico, fatto di spazi metafisici, terra e aspra vegetazione, «infinitesimale paese in questo infinitesimale paese, che è Italia». Mentre monta l’angoscia della voce narrante, su tutti i televisori accesi si consuma, immobile ed ecumenica, l’agonia del Vicario di Cristo, di Papa R. Benché la modernità nella sua emanazione tecnologica rifiuti e chiuda all’io narrante le sue funzioni, i televisori continuano a trasmettere l’immagine di un pontefice già reliquia, nella sua agonia da Supremo, avvolto e costretto nella teatralità che la sua condizione gli impone. Una presenza televisiva che permea d’angoscia la ricerca ossessiva della madre, temuta morta nel tragitto casa-lavoro. La sensazione premonitrice, la nausea, che mette in moto il viaggio nella surrealtà mitica costruita da Andrea Gentile, porta l’io narrante a muoversi e attraversare continue visioni, «ti vedo» è l’intercalare mesmerizzante da lei utilizzato per alimentare la sua ossessione. Man mano che procede la narrazione, la realtà si diluisce nel mito mutando i suoi connotati più rassicuranti («Qui, ora, in questo batterio di mondo, la Storia mi appare sciolta nell'acido. Il mondo è una vasca che questo acido contiene?»). Il racconto leggendario prende forma attraverso l’errare, attraverso questa iperrealtà mitica e cangiante. Ci rendiamo presto conto però che l’epopea, il mito, si svolge nell'io narrante, è esso stesso l’impero familiare delle tenebre future.

Molti i temi materializzati durante l’avvicendarsi delle visioni: la natività, a metà fra allegoria e tessuto organico, l’incontro romantico con la natura (nella sua accezione letteraria), il lucidissimo sciorinare cosa è «il paese, il paese che è Italia», il femminile che si fa trino: nel viaggio al presente, nella dolorosa premonizione sulla madre e nel ricordo multisensoriale della nonna.
Una serie di immagini ci apre le porte dell’impero familiare delle tenebre future: il borborigmo impermanente di Okapia che sfuggì all'uomo e alla sua téchne; l’orribile e mefistofelico insetto fuoco, abominio partorito da manufatti organici umani («L’insetto pare venire da un mondo altro. Quel rosso, quella ipertricosi. Ventitré zampe»); le radiografie del corpo “altro”, animalesco eppure umano di Pellicone, appese nel suo appartamento; le rivoltanti e decadenti sculture - sovrastate dal simulacro ripugnante del volto del duce - che provano a intralciare il cammino dell’io narrante. Tutta la meravigliosa e spaventosissima sessione all'interno della sala dei relitti fonico-visivi (che sembra richiamare le paure ancestrali del corto lynchiano The Alphabet), in cui la paura si materializza in un vorticare di lettere e oggetti che si diluiranno e ci investiranno  in un «bianco disbruno» che calcifica e invagina noi e tutte le possibilità, che ci condanna inesorabilmente alle premonite «tenebre future».

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