mercoledì 21 agosto 2013

La caduta della casa degli Harmon: nota a margine sulla prima stagione di American Horror Story


Esiste una nuova schiera di narratori americani, spregiudicati e talentuosi, che si è presa carico di realizzare quell'aspirazione comunitaria nota ai più come la stesura del «grande romanzo americano». Questo gruppo di autori ha scelto come mezzo non più la carta stampata bensì il piccolo schermo, ha attraversato l'âge d'or della serialità televisiva, moltiplicando le possibilità di concretizzare l’idea di una narrazione di grande respiro, di un immaginario il più univoco possibile che non disdegni di guardare alle proprie origini, alla serialità narrativa, al racconto che è alla base della migliore narrativa americana, da Mark Twain e Sherwood Anderson in poi. Tre di loro meritano particolare menzione: Alan Ball (padre di Six feet under e True Blood), I. Marlene King (Pretty Little Liars) e Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee). Tralasciando, solo per ora, i primi due occupiamoci del diafano creatore di Nip/Tuck, in particolare della «creatura» data alla luce dopo che Sean McNamara ha lasciato Christian Troy all'aeroporto di Los Angeles. È proprio qui, nella città degli angeli, che arrivano da Boston gli Harmons, nuovi e ignari proprietari di quella che impareranno a conoscere come la Murder House, paradigma fisico e proscenio multiplo della prima stagione di American Horror Story.

Edgar Allan Poe. 
Nei progetti dei suoi creatori Ryan Murphy e Brad Falchuk, AHS rivendica, facendone un punto di forza, l’attitudine al racconto in raccolta, realizza un insieme di storie in grado di dialogare fra loro nonostante personaggi e ambientazioni differenti, crea una nuova organicità antologica che supera quella romanzesca.
Questa prima stagione di AHS, ribattezzata a posteriori dai fan Murder House (dando così avvio a una tradizione che vedrà Asylum come titolo della seconda stagione e Coven della terza) abbandona i territori del Gotico Americano (oggi di proprietà di I. Marlene King e delle sue liars) per un viaggio nelle simmetrie folli, disturbanti e claustrofobiche di Edgar Allan Poe. Dopo il suo ingresso nella casa la famiglia Harmon – Ben padre fedifrago, Vivien madre e moglie tradita e Violet, adolescente dark e sull'orlo della depressione - vede moltiplicare se stessa in una serie di figure che diventa presto coro armonico. Le «creazioni» della Murder House si affastellano l’una sull'altra nei diversi piani della casa. Spesso le sentiamo lamentarsi di vivere in solitudine nonostante l’impossibilità di lasciare l’edificio (tranne che in una certa notte di fine ottobre): il giovane sociopatico Tate Langdon (Evan Peters, l’attore più vicino all’estetica di Ryan Murphy), i Montgomery che negli anni venti costruirono la casa secondo i propri gusti facendone poi culla per abomini in fasce, Hayden amante di Ben Harmon in cerca di una sanguinosa riscossione, Moira O’Hara spirito connivente che si mostra agli occhi lussuriosi degli uomini come una riedizione disturbata di Angela LaBarbera mentre a quelli delle donne appare con la maschera stregonesca dell’immensa Frances Conroy, Chad (Zachary Quinto) e Patrick, coppia omosessuale in crisi, Lorraine Harvey arsa viva con le figlie nella casa, Maria e Gladys giovani infermiere trucidate da un maniaco la sera di un concerto dei Doors nel 1968, persino la Dalia Nera Elizabeth Short (qui interpretata da Mena Suvari). Tutte queste storie, queste figure, sono ectoplasmi in pena, si fondono l’una nell’altra, sono speculari e simmetriche (una dei principali piaceri della serie è assistere al connubio o allo scontro speculare fra loro), come nei racconti di Poe queste molteplici complementarietà sembrano sempre doversi risolvere nell’omicidio, una delle due figure che si fronteggiano – Ben e Hayden, Violet e Tate, Vivien e Nora, Chad e Patrick, solo per fare qualche esempio - sembra dover uccidere l’altra o trascinarla nella morte con sé. In Murder House s’instaura una sinistra fame di violenza che scivola dalla zona notte al seminterrato, giocando sulle forze opposte del conflitto e dell’accomunare. La cornice orrorifica della casa, ornata da decine di ritratti, di «ovali» che ne affollano le camere stratificandosi gli uni sugli altri, è teatro di tenzoni sulla maternità, il matrimonio, l’infanzia e, neanche a dirlo, il sesso. Vi sono poi alcuni personaggi liminali, coscienti della natura ferina della Murder House e pronti a comunicare, persino utilizzare la stessa. Si tratta di figure amabili e perfettamente tratteggiate: Constance, una meravigliosa Jessica Lange pre-Sister Jude, il mascalzone due-facce Larry (Denis O’Hare, il mio preferito) e la medium Billie Dean Howard (Lana Banan… ehm, Sarah Paulson).
In definitiva possiamo leggere (ops) American Horror Story: Murder House come un gioco carnevalesco, folle, simmetrico e violento in cui, proprio come in Poe, la realtà e l’apparenza penetrano l’una nell'altra.  


2 commenti:

  1. Denis O’Hare è anche il mio preferito, un personaggio drammatico e comico al tempo stesso.
    Ma guardiamo al futuro: si sa niente su Zachary Quinto? Ci sarà anche lui in AHS Coven o no?

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  2. Una simpatica canaglia Larry, ho amato le sue sortite appresso al povero e imbolsito Ben! Purtroppo ancora non si sa niente sulla presenza di Zacharyno. Come ha detto lui stesso "vedremo".

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