mercoledì 9 novembre 2011

La pelle che abito di Pedro Almodóvar (2011)

«I progressi scientifici possono aiutare l'uomo o farlo sprofondare nell'abisso, invece l'arte non tradisce mai». (P. Almodóvar)

Con La pelle che abito Pedro Almodóvar mostra allo spettatore una nuova regione, di confine e mai di frontiera, del suo paesaggio cinematografico. Lo fa ancora una volta destrutturando - aprendovi varchi e indugi - il genere del melò, che nella visione-immaginario del regista spagnolo è sempre punto di partenza, rete di sostegno su cui costruire paesaggi (di genere, non-organici ma fisici e formali), innestare generi e recuperi dalla tradizione (cinematografica, teatrale e letteraria).
Almodóvar in La pelle che abito fa sua la lezione di Rosalind Krauss che muove dal concetto di index, di archivio per esplorare i concetti di informe, inconscio ottico e collage. Basti pensare alla collezione di capsule Petri nel laboratorio del protagonista Robert Ledgard (Antonio Banderas) o al muro su cui Vera (Elena Anaya) scrive e accumula microdati e date (es. la ripetizione della parola “respiro”) che restituiscono il suo terrificante percorso di formazione e di genere. Riconosciamo quest’operazione nel percorso silenzioso di Vera all’interno della sua prigione (un luogo interno, violentato continuamente dallo sguardo esterno dello spettatore/creatore Ledgard). Vera smembra e riduce a frammenti informi i vestiti da donna, trova sicurezza all’interno della forma, della superficie sempre più impenetrabile che la imprigionerà per sempre, lo fa attraverso la meditazione, lo yoga. Sempre sul sentiero dell’informe Vera fa esperienza di sé attraverso la visione e l’imitazione delle sculture di Louise Bourgeois, che ha magistralmente rappresentato la percezione della sessualità, della famiglia e della solitudine, attraverso immagini-trasfigurazione degli organi genitali.


Rosalind Krauss
Alla riflessione sulla forma (che è totalmente di Vera e non di Ledgard) si affianca quella di inconscio ottico, rappresentata e materializzata da Almodóvar nel protagonista: il chirurgo Robert Ledgard. Egli percepisce Vera attraverso lo sguardo cinematografico, attraverso l’immagine bidimensionale delle telecamere a circuito chiuso che gli raccontano di Vera. Il suo non è più uno sguardo reale ma inconscio. Ledgard obnubilato dalla sua follia non può comprendere che il suo è uno sguardo falsato, edulcorato, diverso, a causa della percezione fotografica. Egli ha costruito l’identità di Vera attraverso un percorso orrifico, violento e agghiacciante, ne ha imprigionato le forme a più livelli per visionarle solo attraverso il suo inconscio, negandone sostanzialmente la natura umana e traumatica (Vera possiede i tratti della moglie scomparsa). È proprio il filtro dell’inconscio ottico a mettere in crisi il chirurgo durante gli incontri fisici e reali con Vera. Egli non sa cosa fare della sua creatura perché ne riconosce solo le forme, la bellezza, il ricordo, attraverso l’immagine fotografica. Nega così alla sua vittima e a se stesso la sua natura reale, umana e fisica.

Louise Bourgeois
L’idea di collage – ancora una volta mutuata dall’arte – completa la visione de La pelle che abito donandole istanze noir agghiaccianti e terribili. Il corpo di Vera è costruito, con puro sadismo, pezzo per pezzo. La pelle, a sua volta derivata da un insieme (ancora un collage) di espressioni genetiche provenienti da diverse specie animali, è solo l’ultimo pezzo, quello che completa la visione (inconscia) di Ledgard.

In conclusione è bene ricordare che la tragedia è per Almodóvar un importante punto di riferimento: il racconto orrifico di Marilla a Vera sulle sorti della moglie di Robert, il conflitto tra fratelli, la follia come seme, il climax finale a unire madre e figlio. La visione è però puramente cinematografica, ed è ambiziosa, la riflessione su forme e visione si ritrova nella regia, nei diversi punti di vista che recuperano la lezione di Hitchcock e quindi di De Palma, nell’espressionismo e surrealismo di certe composizioni corporali: l’ingrandimento della telecamera sul volto di Vera in soggettiva di Robert, gli esercizi statici di Vera che citano chiaramente Pina Bausch, l’aspetto nero e marcato, da femme fatale, di Vera durante il climax finale e il continuo parallelismo di corpi e identità a rendere iconici i momenti di maggiore pathos.


Nessun commento:

Posta un commento