lunedì 28 novembre 2011

Female Trouble di John Waters (1974)


Scrivendo di Female Trouble – l’ultima pellicola realizzata da John Waters insieme alla scatenata gang dei Dreamland – ho iniziato subito a pensare alla metabolizzazione, da parte della moda (basti pensare al lavoro estetico di Nicola Formichetti e Anna Dello Russo) e dei media mainstream contemporanei, dell’idea centrale della pellicola: quel rovesciamento del punto di vista con cui interpretare eleganza e bellezza, donandole connotati orrorifici, mostruosi e postumani.
Allora le motivazioni erano totalmente punk (il volto di Divine con il taglio alla mohicana apparve immediatamente sulle t-shirt dei punk londinesi), reazionarie e dissacranti nei confronti di valori tipici della borghesia. È però la tranquillità, avvolta da una soffice bambagia pastello, dell’american way of life a generare terrore e follia. Sappiamo già che una delle ossessioni principali di John Waters fu la Famiglia Manson e il processo che aveva preso avvio nel 1970. In Female Trouble Waters ne rielabora il mito, suddividendo la pellicola in capitoli che raccontano la nascita e la crescita di Dawn Davemport (interpretata neanche a dirlo da Divine), prima adolescente problematica poi go-go dancer, infine assassina in nome della fama. Nella prima parte della pellicola Waters anticipa alcune delle sue future predilezioni: l’adolescenza problematica (Grasso è bello, Polyester ma soprattutto Cry Baby), le capigliature cotonate e lo stile 60s che lo riconducono dichiaratamente alla giovinezza. Il nostro è ancora circondato dai suoi Dreamland e le istanze di quello che è in assoluto il film-summa di tutta la carriera di Waters devono essere rispettate. Se in futuro sarà Grasso è bello, oggi è ancora Brutto è bello: Dawn è reificata a oggetto simbolo della malattia di una società votata alla spettacolarizzazione, ovviamente del male, della follia e della violenza. Viene violentata in una discarica (in una delle scene più folli del cinema di Waters in cui Divine è violentato da… sé stesso in abiti maschili), strappa coi suoi denti il cordone ombelicale della figlia partorita da sola sul divano, compie azioni lascive, mozza la mano della sua vicina-antagonista rinchiudendola poi in una gabbia in stile canarino (realizzata come le scenografie campy di tutto il film da Vincent Peranio). Dawn è in definitiva una fiera (avvolta in abiti per l’appunto animalier), allevata dagli oscuri Dasher (Mary “faccia d’angelo” Pearce e David Lochary), i proprietari del salone di “bellezza” (le virgolette sono d’obbligo) Lipstick. Saranno loro a guidare Dawn sul sentiero del crimine e dell’orrore.


Susan Atkins
L’intera esistenza di Dawn Davenport è un’ascesa nei confronti del brutto, ogni capitolo è il raggiungimento di un obiettivo via via sempre più agghiacciante: il suo volto deturpato dal vetriolo (lanciatole addosso da un’orrendamente sexy Edith Massey in leather suit) appare ai suoi occhi e a quelli dei Dasher meraviglioso, diventando per il resto del film l’immagine simbolo della Dawn showgirl. Il raggiungimento delle luci della ribalta, però, non sono abbastanza, Dawn  è decisa a incarnare il folle spirito dello spettacolo per una società che richiede di interpretare il mondo esclusivamente attraverso di esso. Dawn mette su uno show violento in cui a un certo punto sembra citare allo stesso tempo Kenneth Anger e Andy Warhol, domandando al pubblico «chi è pronto a morire per l’arte?» prima di iniziare a sparare sulla folla compiendo una carneficina.

Nell’ultima parte del film  - che ricordiamolo: non abbandona mai l’allure comedy – si fa ancora più evidente l’omaggio alla famiglia Manson: Dawn condannata a morte inizia a ridere sguaiatamente riprendendo le performance in aula di Susan Atkins e Charles Manson, nel braccio della morte ella diventa un’icona, amata e desiderata (si ricordi il bacio con un'altra detenuta prima dell’esecuzione) e nemmeno nel finale rinuncia a ribadire la follia di una società votata alla spettacolarizzazione, in una delle inquadrature più ricordate del cinema di Waters: il volto di Dawn fissato in un’espressione assai comica dopo aver ricevuto la scossa letale sulla sedia elettrica.

Nessun commento:

Posta un commento