domenica 4 maggio 2014

The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson (2014)



Diciamolo subito: The Grand Budapest Hotel è senza dubbio il lungometraggio più compito del regista americano Wes Anderson. Lo si dice da amante di tutta la sua filmografia, che ha regalato al pubblico storie e personaggi deliziosi e memorabili.
A fare di questa sua ultima fatica non solo una visione godibile ma emozionante e sorprendente è l’attitudine poetica che la percorre, la bellezza della parola e ciò che essa è in grado di evocare e provocare. In un immaginario come quello di Wes Anderson, caratterizzato da colori, scenari, costumi e inquadrature riconoscibili a stupire questa volta è il potere salvifico del lirismo e quello poietico del racconto, incarnati rispettivamente nei protagonisti della pellicola: Monsieur Gustave H. – il raffinato concierge del Grand Budapest Hotel, romantico, amatore di attempate ladies che scelgono l'albergo solo per passare del tempo con lui – interpretato con maestria degna del suo personaggio da Ralph Fiennes e Zero Moustafa che racconta gli eventi accaduti all’autore («come giovane uomo») interpretato da Jude Law, con indosso un paio di occhiali à la Wes Anderson e diretto riferimento allo scrittore Stefan Zweig le cui opere sono di ispirazione per la pellicola. Sarà proprio la grazia e la poesia di Monsieur Gustave H. a risolvere molte delle sventure avvenute ai due protagonisti e il valore aggiunto della pellicola sta proprio nella sua natura di racconto, di narrazione picaresca assai avvincente, concitata e ricca di personaggi.

The Grand Budapest Hotel si muove fra diversi piani temporali intorno all’unità di luogo costituita dall’albergo stesso: il presente, il 1968 (dove l’autore incontra Zero Moustafa adulto che gli racconta gli eventi che lo hanno portato a possedere il Grand Budapest), il 1932, periodo in cui si svolgono le roboanti avventure di  Monsieur Gustave H. e del suo giovane garzoncello Zero (Tony Revolori).
Il film è ambientato in una fittizia regione europea sulle Alpi: la repubblica di Zubrowka, ma l’immaginario europeo che caratterizza l’aspetto della pellicola è filtrato dall’occhio americano di Wes Anderson, un occhio che per sua natura è simbolico, il cui didascalismo è funzionale alla diegesi del racconto e alla sua natura e peculiarità. Inoltre The Grand Budapest Hotel può contare sul felice connubio fra una delle regie più grafiche che abbiamo mai avuto da Wes Anderson e l’attitudine rocambolesca allo slapstick che rende la visione del film un’esperienza divertente e stupefacente. Il ritmo incalzante, le battute, i dettagli, le peculiarità, le semplici espressioni intraviste sul volto dei molti personaggi anche solo per un secondo, tutto contribuisce a un’esperienza che per lo spettatore diventa spassosa, commovente, avvincente e deliziosa come i dolci di monsieur Mendl’s che «puntellano» la narrazione.
Lasciamoci stupire, infine, dalla nutrita fauna di personaggi che rendono memorabile la pellicola: l’attempata Madame D. di Tilda Swinton, i ferini Dmitri e J.G. Jopling di Adrien Brody e William Defoe, l’avvocato Kovacs di Jeff Goldblum, l’avanzo di galera Ludwig di Harvey Keitel, la Società delle chiavi incrociate di Monsieur Ivan (Bill Murray), la cameriera gatta Clotilde di Léa Seydoux e gli altri concierge del Grand Budapest interpretati da Owen Wilson e Jason Schwartzman (e chi se no?). 

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