Diciamolo
subito: The Grand Budapest Hotel
è senza dubbio il lungometraggio più compito del regista americano Wes Anderson. Lo si dice da amante di
tutta la sua filmografia, che ha regalato al pubblico storie e personaggi
deliziosi e memorabili.
A fare di
questa sua ultima fatica non solo una visione godibile ma emozionante e
sorprendente è l’attitudine poetica che la percorre, la bellezza della parola e
ciò che essa è in grado di evocare e provocare. In un immaginario come quello
di Wes Anderson, caratterizzato da colori, scenari, costumi e inquadrature
riconoscibili a stupire questa volta è il potere salvifico del lirismo e quello
poietico del racconto, incarnati rispettivamente nei protagonisti della
pellicola: Monsieur Gustave H. – il raffinato
concierge del Grand Budapest Hotel,
romantico, amatore di attempate ladies
che scelgono l'albergo solo per passare del tempo con lui –
interpretato con maestria degna del suo personaggio da Ralph
Fiennes e Zero Moustafa che
racconta gli eventi accaduti all’autore («come giovane uomo») interpretato da Jude Law, con
indosso un paio di occhiali à la Wes
Anderson e diretto riferimento allo scrittore Stefan Zweig le cui opere sono di
ispirazione per la pellicola. Sarà proprio la grazia e la poesia di Monsieur
Gustave H. a risolvere molte delle sventure avvenute ai due protagonisti e il
valore aggiunto della pellicola sta proprio nella sua natura di racconto, di
narrazione picaresca assai avvincente, concitata e ricca di personaggi.
The Grand Budapest Hotel si muove fra diversi piani temporali
intorno all’unità di luogo costituita dall’albergo stesso: il presente, il 1968
(dove l’autore incontra Zero Moustafa adulto che gli racconta gli eventi che lo
hanno portato a possedere il Grand Budapest), il 1932, periodo in cui si
svolgono le roboanti avventure di Monsieur
Gustave H. e del suo giovane garzoncello Zero (Tony Revolori).
Il film è
ambientato in una fittizia regione europea sulle Alpi: la repubblica di Zubrowka,
ma l’immaginario europeo che caratterizza l’aspetto della pellicola è filtrato
dall’occhio americano di Wes Anderson, un occhio che per sua natura è simbolico,
il cui didascalismo è funzionale alla diegesi del racconto e alla sua natura e
peculiarità. Inoltre The Grand Budapest
Hotel può contare sul felice connubio fra una delle regie più grafiche che
abbiamo mai avuto da Wes Anderson e l’attitudine rocambolesca allo slapstick che rende la visione del film
un’esperienza divertente e stupefacente. Il ritmo incalzante, le battute, i
dettagli, le peculiarità, le semplici espressioni intraviste sul volto dei molti
personaggi anche solo per un secondo, tutto contribuisce a un’esperienza che
per lo spettatore diventa spassosa, commovente, avvincente e deliziosa come i dolci
di monsieur Mendl’s che «puntellano»
la narrazione.
Lasciamoci
stupire, infine, dalla nutrita fauna di personaggi che rendono memorabile la
pellicola: l’attempata Madame D. di Tilda Swinton, i
ferini Dmitri e J.G. Jopling di Adrien Brody e William Defoe, l’avvocato
Kovacs di Jeff
Goldblum, l’avanzo di galera Ludwig di Harvey Keitel, la
Società delle chiavi incrociate di Monsieur Ivan (Bill Murray), la
cameriera gatta Clotilde di Léa Seydoux e gli
altri concierge del Grand Budapest
interpretati da Owen
Wilson e Jason
Schwartzman (e chi se no?).
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