Benvenuti a Xenia, Ohio, qui l’arrivo di un uragano
ha portato la comunità in un altro mondo (specie i bambini), ma non del tipo
che chiamereste «meraviglioso» come quello di Oz. La piccola Dorothy Gale, alla
fine della pellicola di Fleming, ripeteva come un mantra che «nessun posto è
come casa mia», ma questo i piccoli, disturbati, abitanti di Gummo lo sanno
già, passategli piuttosto quel sacchetto di colla da carpentiere da sniffare.
È incredibile come il genio di Harmony Korine già nel 1997 (se non prima, con la sceneggiatura di Kids) possedesse la capacità di
ribaltare il plastico e consolatorio immaginario americano. Già, perché che
cos’è Gummo (primo manifesto freak
della contemporaneità) se non uno sguardo d’affaccio nel pozzo dietro la
fattoria di Dorothy Gale in Kansas? Uno sguardo che può portarvi alla follia o
condannarvi per sempre a vivere fra le mefistofeliche grinfie di una realtà dove
i il disagio si coniuga all’innocenza e alla violenza, dove pure la natura
ferina è andata alla deriva consegnando alla vista dello spettatore un’umanità
vinta e ignara, in cui il male ha perduto il suo termine di paragone o forse
non l’ha mai avuto.
Alla sua uscita molti hanno letto il film come una
versione contemporanea di Freaks di
Tod Browning, in realtà con Gummo Harmony Korine ci fornisce la migliore delle linee di continuità che muove dall’opera
di Lyman Frank Baum verso la scomparsa dell’umanità e quindi di ogni sua
espressione, artistica compresa. Per farlo Korine si serve dei corpi
dei suoi giovanissimi protagonisti, corpi che s’incastonano in un rosario
mefistofelico di storie raccontate oralmente.
In Gummo Harmony Korine, memore della lezione di Kenneth Anger e John Waters, muove attraverso un tappeto musicale che avvolge e strania, sublima la follia e la paura, arrivando a deflagrare fra le maglie della narrazione non-convenzionale: il metal (black e death in particolare) accanto a Roy Orbison e ancora, il grindcore, Madonna (Like a prayer, ovviamente), Bach e il power violence.
In Gummo Harmony Korine, memore della lezione di Kenneth Anger e John Waters, muove attraverso un tappeto musicale che avvolge e strania, sublima la follia e la paura, arrivando a deflagrare fra le maglie della narrazione non-convenzionale: il metal (black e death in particolare) accanto a Roy Orbison e ancora, il grindcore, Madonna (Like a prayer, ovviamente), Bach e il power violence.
Se volete sapere di chi sono figlie le eroine di Spring Breakers guardate al terrorizzato
Tummler, o al piccolo e weirdissimo
Solomon (la cui voce strascicata è in parte narrante), alla loro flânerie nei territori devastati e vili
di Xenia, guardate alla bellezza disturbante di Dot (Chloë Sevigny, qui anche in
veste di costumista), o a quella tutelare del Bunny Boy.
In Gummo la visione di Korine era già netta e demistificante. Ci aveva avvertito: il male è tra noi, il tornado è
passato, e nessuno di noi poveri umanotteri - felici di essere sopravvissuti e
pruriginosi come non mai – è più in grado di riconoscerlo, figuriamoci
discernerlo.