Francis Scott Fitzgerald
ha saputo come pochi incarnare lo spirito del tempo, quello degli anni Venti, i
ruggenti, gli anni della crescita
finanziaria esponenziale, della facilità, della giovinezza disincantata, della
stravaganza e dell’esibizionismo. Gli anni in cui l’aristocrazia di classe veniva
affogata da una pioggia di diamanti «grossi come il Ritz», dal denaro facile
che rende eroi una generazione di giovani incerti e volubili. Sappiamo anche
che non è solo per questo che Fitzgerald e il romanzo in questione, Il Grande Gatsby, hanno attraversato i decenni per raccontare una storia in grado
di conquistare sempre nuove schiere di lettori. Quello che amiamo è la
sensazione di tragedia imminente restituita da ogni pagina. Touch of disaster che attraversa le
finestre aperte sul salone di Daisy, esala da entrambe le rive su cui si
fronteggiano le abitazioni dei protagonisti, brilla nel faro verde, soffia dalla
torre dell’imponente abitazione di Jay Gatsby, attraversa le strade in fermento
di New York e soffoca chi ha avuto l’ardire di avventurarsi nella calda estate
cittadina.
Fitzgerald
ha la capacità di raccontare in maniera asciutta e moderna dell’ossessione,
dell’idolatria sempreverde con cui la mente di un amante fissa per sempre
l’oggetto del suo amore, allontanandolo dalla realtà. Non possiamo non
innamorarci di Jay Gatsby, creatura fittizia, plasmata dalla volontà di un
ragazzo, che materializza sulla pagina lo spirito degli
Stati Uniti all’indomani della prima guerra mondiale: l’abbandono della
provincia alla ricerca del benessere più scintillante, il trauma non elaborato
della guerra – Jay sa del matrimonio di Daisy durante il conflitto, in Europa,
e qui si aggrappa alla convinzione di riconquistarla – proprio l’Europa come
provvisorio rifugio in cui elaborare il proprio sé (erano quelli gli anni della
Parigi di Gertrude Stein ed Ernest Hemingway), il ritorno negli Stati Uniti e
il confronto con la selvaggia crescita finanziaria e soprattutto con
l’indifferenza sociale (che diverrà minimalismo morale nel secondo dopoguerra).
Indifferenza, qui incarnata dalla coppia Daisy Fay e Tom Buchanan. Pur legando
il proprio stile alla tradizione letteraria anglofona: il punto di vista
privilegiato e «coscienza esterna» à la
Henry James, Fitzgerald propone la sua tragedia attraverso un linguaggio asciutto,
moderno, simbolico, ricco d’immagini meravigliose e indimenticabili. Ogni luogo
del presente o del passato di Jay Gatsby è parte di un immaginario ben
codificato e riconoscibile: dalle feste ruggenti con i volti rappresentanti lo
zeitgeist: it-girl, vamp, magnati della finanza e
dell’editoria, malaffaristi, attori, rampolli, tutti pronti a inscenare il
grande spettacolo di Gatsby per attrarre l’attenzione fatua di Daisy, fino alle
desolate lande della periferia, velocemente attraversate su di un bolide
infernale e ignorate persino nell’omicidio (sono degli anni Venti le leggi più
antisociali mai varate negli Stati Uniti: nessuna limitazione al lavoro
minorile, divieto di picchettaggio e di sciopero, repressione generalizzata).
Così Fitzgerald fa i conti con la propria epoca e con la propria storia personale, annunciando la tragedia incombente che avrebbe colpito gli Stati Uniti, spazzando via diamanti, fuochi fatui, ricchezza facile, scorribande e stravaganze: la crisi del 1929, passata alla storia come Grande Depressione.
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