domenica 27 luglio 2014

Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925)



Francis Scott Fitzgerald ha saputo come pochi incarnare lo spirito del tempo, quello degli anni Venti, i ruggenti, gli anni della crescita finanziaria esponenziale, della facilità, della giovinezza disincantata, della stravaganza e dell’esibizionismo. Gli anni in cui l’aristocrazia di classe veniva affogata da una pioggia di diamanti «grossi come il Ritz», dal denaro facile che rende eroi una generazione di giovani incerti e volubili. Sappiamo anche che non è solo per questo che Fitzgerald e il romanzo in questione, Il Grande Gatsby, hanno attraversato i decenni per raccontare una storia in grado di conquistare sempre nuove schiere di lettori. Quello che amiamo è la sensazione di tragedia imminente restituita da ogni pagina. Touch of disaster che attraversa le finestre aperte sul salone di Daisy, esala da entrambe le rive su cui si fronteggiano le abitazioni dei protagonisti, brilla nel faro verde, soffia dalla torre dell’imponente abitazione di Jay Gatsby, attraversa le strade in fermento di New York e soffoca chi ha avuto l’ardire di avventurarsi nella calda estate cittadina.
Fitzgerald ha la capacità di raccontare in maniera asciutta e moderna dell’ossessione, dell’idolatria sempreverde con cui la mente di un amante fissa per sempre l’oggetto del suo amore, allontanandolo dalla realtà. Non possiamo non innamorarci di Jay Gatsby, creatura fittizia, plasmata dalla volontà di un ragazzo, che materializza sulla pagina lo spirito degli Stati Uniti all’indomani della prima guerra mondiale: l’abbandono della provincia alla ricerca del benessere più scintillante, il trauma non elaborato della guerra – Jay sa del matrimonio di Daisy durante il conflitto, in Europa, e qui si aggrappa alla convinzione di riconquistarla – proprio l’Europa come provvisorio rifugio in cui elaborare il proprio sé (erano quelli gli anni della Parigi di Gertrude Stein ed Ernest Hemingway), il ritorno negli Stati Uniti e il confronto con la selvaggia crescita finanziaria e soprattutto con l’indifferenza sociale (che diverrà minimalismo morale nel secondo dopoguerra). Indifferenza, qui incarnata dalla coppia Daisy Fay e Tom Buchanan. Pur legando il proprio stile alla tradizione letteraria anglofona: il punto di vista privilegiato e «coscienza esterna» à la Henry James, Fitzgerald propone la sua tragedia attraverso un linguaggio asciutto, moderno, simbolico, ricco d’immagini meravigliose e indimenticabili. Ogni luogo del presente o del passato di Jay Gatsby è parte di un immaginario ben codificato e riconoscibile: dalle feste ruggenti con i volti rappresentanti lo zeitgeist: it-girl, vamp, magnati della finanza e dell’editoria, malaffaristi, attori, rampolli, tutti pronti a inscenare il grande spettacolo di Gatsby per attrarre l’attenzione fatua di Daisy, fino alle desolate lande della periferia, velocemente attraversate su di un bolide infernale e ignorate persino nell’omicidio (sono degli anni Venti le leggi più antisociali mai varate negli Stati Uniti: nessuna limitazione al lavoro minorile, divieto di picchettaggio e di sciopero, repressione generalizzata). 

Così Fitzgerald fa i conti con la propria epoca e con la propria storia personale, annunciando la tragedia incombente che avrebbe colpito gli Stati Uniti, spazzando via diamanti, fuochi fatui, ricchezza facile, scorribande e stravaganze: la crisi del 1929, passata alla storia come Grande Depressione.

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