Dimenticato
il Razzie Award per l’interpretazione di Mary Corleone (da vedere e rivedere
direbbe Lorelai Gilmore) Sofia Coppola
ripone le velleità attoriali (non prima di un’incursione nel meraviglioso video
dei Chemical Brothers Elektrobank)
per dedicarsi alla regia cinematografica. Il suo primo lungometraggio - oggi
assunto a cult assoluto e paradigma principe del cinema indipendente - è Il giardino delle vergini suicide.
Sofia
muove dal romanzo di Jeffrey Eugenides Le vergini suicide, per iniziare a lavorare su temi e stilemi che connoteranno
tutto il suo cinema: le energie giovanili, imprigionate in sovrastrutture
sociali (qui la suburbia americana post-Vietnam) e per questo accresciute in
creatività e irresistibile appeal, lo
sguardo vampirizzante delle convenzioni, lo spleen
venefico della vita quotidiana. A rendere però Il giardino delle vergini suicide una visione unica, inafferrabile
e pressoché irripetibile è la naturalezza, la disinvoltura (per me il vero
differenziale) e il candore spregiudicato con cui Sofia affronta la tragedia
delle sorelle Lisbon. Elegante, scarno, simmetrico, lo sguardo della camera si
posa sulle ectoplasmatiche sorelle imprigionate in una villetta unifamiliare
senza alcuna sordida o voyeuristica attrazione. La fotografia sapida nelle
scene in cui l’immaginazione dei ragazzi che tentano di raggiungere le sorelle
Lisbon si libera sui ricordi racchiusi nel diario di Cecilia (tredici anni, «la
prima a spargere il veleno nell’aria») diviene asciutta e piatta negli interni
governati dallo sguardo della signora Lisbon, in una fenomenologia del piano di
sopra, con i suoi segreti e tesori: i tampax nello stipetto del bagno, il prete
che non riesce a sostenere la visione delle ragazze stese insieme sul pavimento
della loro camera, i dialoghi telefonici attraverso brani musicali coi ragazzi.
Per il
ruolo della mater lacrimarum
suburbana Sofia chiama Kathleen Turner, già «serial mom» per John Waters ne La signora ammazzatutti. La signora
Lisbon, figura monolitica e imperscrutabile nel romanzo di Eugenides, è qui
ritratta con poche sapide pennellate che ne rendono la personalità nel migliore
dei modi: la vediamo chiacchierare con Cecilia in cucina della rana ridibunda
aggiunta alle specie a rischio e poi con occhi bassi e labbra sottili ordinare
a Lux di bruciare tutti i suoi dischi rock nel caminetto. Nella zona suburbana (lo
celebrerà anni dopo Marc Cherry con Desperate Housewives) sono le donne a governare gli eventi e gli uomini non possono
che essere degli accessori, ecco quindi la fragile appendice della signora
Lisbon: il marito Ronald, mite professore di matematica travolto dalla
tragedia, interpretato con grazia da James Woods. Intorno a loro un vicinato camp che nell’obiettivo della camera di
Sofia diviene un inno al minimalismo morale, con quell’arma vile che è
l’impersonale «ci si chiede sempre se ci fosse qualcosa che si potesse fare» e
con la rapidità con cui, epurati i Lisbon, ritorna «al tennis e ai cocktail in
barca».
A
completare la visione de Il giardino
delle vergini suicide Sofia chiama Giovanni Ribisi per dar voce al
malinconico narratore (awwwness
totale), la sua musa e alter-ego Kirsten Dunst nel ruolo della panica Lux, Danny DeVito nel ruolo dello psicanalista Horniker, un efebico Josh Hartnett nei panni del dinoccolato asshole Trip Fontaine e gli Air a produrre
uno dei più calzanti commenti musicali mai concepiti per una pellicola.
il top dei top!
RispondiEliminaIn assoluto! E quanta scuola ha fatto.
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