C’è stato
un cinema italiano in cui ricchezza formale, ricerca e godibilità sapevano
coniugarsi perfettamente, incarnandosi, di volta in volta, in pellicole
originali, la cui ambizione raggiungeva ogni obiettivo prefissato. Tra questi
oggetti cinematografici merita più di una menzione Femina ridens, esordio
alla regia di Pietro Schivazappa nel
1969. La pellicola è deliziosamente influenzata dalle «filosofie della crisi»
di primo Novecento, in particolar modo dall’esistenzialismo di Sartre e
dall’inettitudine alla modernità mutuata dall’opera di Italo Svevo. I due
protagonisti, interpretati da Philippe Leroy e Dagmar Lassander, sono
attori – nell’accezione sociologica del termine – di un esperimento
situazionista, un «gioco inscenato», in cui la rappresentazione del masochismo
e della prevaricazione dell’uomo sulla donna avviene a metà tra l’avanguardia
artistica, il cronachismo più sanguinoso e l’analisi accademica.
Con una
struttura circolare, Femina Ridens imprigiona
entrambi i suoi protagonisti in uno spazio temporale libero dal lavoro – che
impegna ugualmente uomo e donna e che li mette in gioco (di potere, of course) per opinioni e mansioni – in
cui la natura umana, nevrotica, inetta, sostanzialmente in crisi, è liberata
improvvisamente, in seguito a un istinto ferino che
supera l’ordinarietà del seriale alla ricerca dell’imprevisto e del naturale,
in una modernità totalmente artificiale. Ecco che l’imprenditore e filantropo
Sayer (Leroy) prova a seguire le orme del divin Marchese, dimenticando di
essere uomo del Novecento e quindi irrimediabilmente «in crisi», inetto,
incapace di abbandonare la sterile e autoreferenziale rappresentazione di se
stesso per affrontare le insidie della natura, fino allora scientemente negata.
Tutto il rosario di torture e sevizie S&M cui Sayer sottopone Mary (Lassander)
non sono che l’affermazione della propria sconfitta, sia fisica sia
intellettuale, nei confronti della donna. Donna che si vuole soverchiata, sottomessa
e umiliata ma che già nella condizione di vittima dimostra la superiorità tanto
avversata da Sayer.
Schivazappa
realizza la sua visione - optical
perdinci! Siamo nei 60s – con fare
situazionista a partire dall’appartamento-prigione di Sayer, proiezione mentale
della sua condizione e costruito secondo una visione modernista in cui s’incontrano
citazioni dell’art group Plexus e la
serialità “altra” di Giuseppe Capogrossi. Una costruzione-rappresentazione che
vede il suo culmine nella gigantesca scultura con la vagina dentata, omaggio all’opera
di Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt: Hon/Elle. Visione che continuerà a incarnarsi tra una sortita
panica alla Blow Up e quella in un
castello medievale, fino alla karmica agnizione finale.
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