È
arrivato anche per David Cronenberg
il momento di affrontare il proprio viaggio nella «Hollywood Babilonia», la cui
mappa sozza di sangue brillante Kenneth Anger ha tracciato nei suoi due
monumentali volumi, usciti rispettivamente nel 1959 e 1984. Una mappa che molti
hanno percorso, dal David Lynch di Mulholland Drive allo Steve Erickson di Zeroville
(presto sugli schermi grazie all’impegno del nostro Jimbo) e che Cronenberg
affronta con gli strumenti che lui stesso ha forgiato (come Beverly con gli
utensili ginecologici per donne mutanti in Inseparabili).
L’approccio junghiano, la mutazione, l’onirismo, la malattia, la
rappresentazione dei complessi familiari: «strumenti» che si commissionano tra
di loro, dando origine a nuovi e sempre più reali modi di rappresentare la
mostruosità di cui è capace l’umano.
Dopo anni
di girato in Canada Cronenberg, proprio con Map to the stars, approda
in suolo statunitense e affronta la Grande Babilonia di cartapesta. La sua
camera si semina fra i bassi edifici e le larghe strade del distretto
hollywoodiano, dal Sunset Boulevard alle colline di Beverly Hills, per seguire
i suoi protagonisti: creature ferine, fragili e perseguitate. L’occhio di
Cronenberg segue la scrittura intrisa di humour
nero di Bruce Wagner (che
nell’attesa di completare il film ha dato alle stampe un romanzo Dead Stars, che supera i confini del
girato) e ci offre questa gelida e disturbante visione di una «fantasmata cosciente» e collettiva.
L’attrice Havana Segrand (una livida e meravigliosa Julianne Moore), avviluppata
nel complesso di Elettra nei confronti della propria «mammina cara», la
«piccola canaglia» Benjie Weiss (Evan Bird), i suoi genitori uniti da un
atavico tabù e (ovviamente) dal denaro Christina (una spigolosa Olivia Williams)
e Stafford (John Cusack, spaventevole e bravissimo come sempre), la folle di
catena Agatha (nel nostro cuore ora e sempre Mia Wasikowska) e l’aspirante
attore e autista di limousine (c’è bisogno di dirlo? Robert Pattinson, già
protagonista di Cosmopolis), tutti
sono ossessionati dal proprio «teatro privato» in cui si agitano complessi,
paure, innominabili colpe, splendide e perturbanti visioni
della propria coscienza, ironiche rappresentazioni del sé.
Siamo a
Hollywood, «la città degli orpelli» in cui la lotta per la fama e per il denaro
è così frustrante e sanguinosa che è naturale sviluppare psicosi e traumi,
liberi di sfociare in sogni a occhi aperti, allucinazioni ben più sincere della
realtà, in cui i nostri eroi si confrontano con reconditi desideri e turpi paure.
Mentre
Agatha e Benjie sciorinano i versi di Liberté
di Paul Éluard, in una forma d’ipnosi surrealista si consuma la tragedia,
l’ennesima rappresentazione del dolore (degli altri) all’ombra dell’immane e
imperitura scritta «HOLLYWOOD». Un rosario di eventi che illumina di fiamma il
percorso nella mappa di Cronenberg: accompagnati da splendidi fantasmi inconsci
raggiungeremo le ville sulle colline in cui bruciare vivi o essere colpiti a
morte dalla vendetta in guanti di pelle, ritorneremo poi alle pendici della
scritta per l’ultima, grande, rappresentazione del sé. Un matrimonio, un
suicidio rituale, un finale tragico che vi brucerà e consumerà come le stelle
che avete sempre desiderato raggiungere.
un film forse non riuscitissimo al 100%, però allo stesso tempo ricco di fascino.
RispondiEliminaper me un cronenberg più che promosso!
L'ho amato molto Marco! Era un passaggio da compiere quello di Cronenberg nella Hollywood Babilonia e l'ha fatto ambientandovi tutte le suggestioni della sua poetica.
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