sabato 1 marzo 2014

Le notti di Salem di Tobe Hooper (1979)



È straordinario come la letteratura e il cinema siano riusciti a trovare una via di fuga a quella che Henry Miller aveva definito «incubo ad aria condizionata», in altre parole ciò che erano diventati gli Stati Uniti negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Se nel 1956 una casalinga alcolista di Gilmanton, New Hampshire, aveva liberato le energie più peccaminose e violente della provincia col suo romanzo d’esordio Peyton Place, nel 1975 Stephen King aveva portato fra quegli steccati l’orrore sovrannaturale, la materializzazione delle paure più recondite e ferine nel suo Le notti di Salem. Quello di King è un romanzo ricco e composito, che, come in ogni opera del Re, ha nelle parti dedicate alla everyday life le sue migliori pagine.
Dal romanzo – dopo un rosario di traversie che vide persino Romero fra i papabili registi – è stata tratta una mini serie televisiva diretta da Tobe Hooper. La Salem’s Lot (Jerusalem's Lot) di Hooper è il perfetto quadro della provincia americana, un luogo raccolto, dove il microcosmo suburbano si muove osservante e osservato, dove la vita quotidiana guarda di sottecchi alla leggenda popolare che - memore dell’eredità lovecraftiana – s’incarna in un’abitazione maledetta, materializzazione fisica dell’orrore. Alla ricerca della vera essenza del male – dopo un antefatto ambientato in una chiesa a Calcutta – arriva qua lo scrittore Ben Mears (David Soul) che affitta una stanza con vista sulla Casa Marsten, luogo di innominabili e mai risolti misteri e orrori. L’abitazione coloniale, è stata oggi affittata agli antiquari Richard Straker e Kurt Barlow intenzionati ad avviare un’attività proprio a Salem’s Lot.

Dacché Straker (che ha il volto enigmatico di James Mason) inizia a muoversi in città accadono strane cose. Un’epidemia di anemia sideropenica si trasforma in qualcosa di più orribile, bambini sono inghiottiti nel bosco, agghiaccianti figure fluttuanti bussano alle finestre e uno strano gelo s’impossessa di chiunque si avvicini a Casa Marsten.
Tobe Hooper riesce a dar vita al folto parterre di personaggi che anima la cittadina. Ognuno di essi ha una storia, un segreto da nascondere (ricordate sempre l’eredità da cui muoviamo: Peyton Place). Ecco quindi che la violenza domestica incontra l’orrore primigenio, il tradimento la ricerca mefistofelica del sangue, un rapporto d’amore si consuma in tragedia attraverso un paletto di legno appuntito.
La mini serie, in Italia uscita anche al cinema in versione ridotta, pur non riuscendo a trasporre totalmente la vitalità e complessità dei personaggi del romanzo, ha la qualità di giocare sul filo della tensione attraverso gli sguardi, le occhiate interrogative e scrutanti, i dialoghi di fronte a una cena con un vecchio professore di letteratura. Attraverso tutto questo passa Ben Mears prima della terribile agnizione, purtroppo tardiva e quindi inutile a frenare l’ascesa del maestro vampiro Barlow (Reggie Nalder, non accreditato), le cui fattezze richiamano l’espressionismo del Nosferatu di Murnau. Barlow incarna qui l’orrore ancestrale, ributtante e invincibile. Basti citare solo gli occhi del vampiro maestro e quelli della sua progenie, occhi liquidi, infernali e lucidi come le fiamme dell’inferno, occhi che hanno segnato l’estetica della pellicola, realizzati attraverso materiale da proiezione frontale applicato sulle lenti a contatto degli attori.

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