Era il
1992, da lì a poco sarebbe arrivato l’Armageddon Avant-Pop della Teenage Apocalypse Trilogy, con l’esplosione
folle e sensuale della realtà in una miriade di frammenti impazziti,
provenienti da decine e decine d’immaginari e identità intercambiabili. A quel
tempo il giovane Gregg Araki, nato e
cresciuto nella Hollywood Babilonia, ha ben chiaro quello che accadrà. Sorride,
perché sa già che sarà proprio lui a rappresentare il caleidoscopico tornado
invocato da tutte le tribù della controcultura, annunciato dalle trombe di MTV
e dall’avvento del cyberspazio. Proprio in quell’anno Araki gira uno dei suoi
film più belli: The Living End, che visto a distanza di ventidue anni dalla sua
uscita dà la sensazione del capolavoro, sia per il sistema d’amore
rappresentato sia per l’energia creativa tutta in low budget e l’aura di iconicità che solo Araki sa donare a tutti i
suoi personaggi.
Siamo
nella città degli angeli, una bomboletta spray viene agitata sulle colline di
Hollywood mentre risuona Godlike dei KMFDM prima che questa venga lanciata contro lo skyline della città. Comincia così il
viaggio fra quelle che in Doom Generation
saranno le rovine della cultura contemporanea ma che qui sono ancora il luogo
ideale per la rappresentazione autocosciente della MTV generation, con i
dialoghi e i monologhi autorefenziali mutati da Three Bewildered People in the Night, che saranno poi del manifesto
generazionale Totally Fucked Up e della
serialità teen che verrà (Dawson’s Creek). Qui il sieropositivo
Jon, efebico e malinconico incontra il white
hustler Luke - progenie del Bruce Byron di Scorpio Rising - in fuga dopo aver ucciso tre aggressori con indosso
le t-shirt di Sex, lies and videotapes
e Drugstore Cowboy. I due
intraprenderanno un road movie, avanguardia
di quello che sarà poi in Doom Generation
ma che qui ha ancora le caratteristiche dell’umano nella sua ruvida,
sanguinolenta e sensuale rappresentazione.
Il sistema dell’amore di The Living End andrebbe approfondito
secondo l’esegesi letteraria, dal confronto a colazione fra Jon e Luke sulla
condizionale omosessuale rispetto alla società contemporanea («I blame society»
scriverà Luke con la sua bomboletta spray su un muro, accusa che apparirà poi
sulla t-shirt di Andy in Totally fucked
up). Lo sguardo nichilista di Luke allontanerà Jon dalla coppia neo-normata che lo vede insieme all’amica Darcy (Darcy Marta, già Alicia in Three Bewildered People in the Night), abbandonata in città fra copie di «Interview» e giocattoli meccanici.
Quella di Jon durante il viaggio è la presa di coscienza di se stesso e dell’amore
totale che Luke può dargli, mentre intorno a loro arrivano i cavalieri dell’apocalisse
Avant-Pop: Paul Bartel, accreditato come «Twister master», la musa di Warhol e
Corman Mary Woronov in coppia folle con la performer Johanna Went e la frontman
dei Fibonaccis Magie Song che qui legge a squarciagola passi della Bibbia di
fronte a un 7-11.
A noi
resta l’immagine finale, con il terribile rituale imbastito da Luke per Jon, le
sue lacrime e il tramonto che si staglia liquido sulla coppia, sfinita e
allacciata nel silenzio prima del nero.
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