Un paesaggio stratificato, un deserto urbano in cui
convivono l’uno sull’altro commissionati i reperti di una società rurale, fatta
di case di pietra, viottoli, cortili, e le strutture già in abbandono, simboli
di un fallimento precoce, quello della selvaggia speculazione edilizia. Ai bordi
frastagliati di una città immersa in un bianco e nero manicheo si muove una
fauna malinconica, l’unica ancora umana nell’accettazione delle sue miserie.
Un’umanità raccontata per la prima volta dalla visione di Pier Paolo Pasolini e
che qui, grazie all’amore di Aurelio Grimaldi per l’autore di Ragazzi di vita, torna a essere
protagonista. Sto parlando de Le buttane, film non a caso
celebrato al Festival di Rotterdam. L’ex insegnante e scrittore Grimaldi (suo
il romanzo da cui Marco Risi trarrà Mery
per sempre) che prima in Ragazzi
fuori e poi con La ribelle si
cimenta con il cinema per poi realizzare Le
buttane, un’opera cruda e dolorosa che è ormai parte dell’immaginario
popolare italiano.
Ci troviamo in Sicilia, a Termini Imerese, il sole accecante e tagliente
disegna geometrie pre-metafisiche mentre nella meravigliosa apertura assistiamo
alla discesa negli inferi di un’almodovariana Paola Pace sulle note di Eclissi Twist di Mina (già tema de L’eclisse di Michelangelo Antonioni,
quasi ad annunciarne la versione postribolare del suo Le amiche). Da qui la narrazione si dipana come un’austera treccia
sciolta nella penombra della propria camera. Oltre alla spigolosa Paola Pace
qui Veronica, una prostituta che riceve in casa con tanto di sala d’aspetto,
seguiamo le storie di Orlanda, la prostituta napoletana e agé interpretata da Ida di Benedetto, la “dura madre”
Milù (Lucia Sardo), la giovane Blu Blu (che verrà ricordata per lo strepitoso monologo su religione e sesso di fronte a due sgomente testimoni di Geova), la transessuale
Kim (Alessandra di Sanzo), Maurizio il ragazzo di vita che subisce il mestiere
attraverso i baci lenti e prolungati che è costretto a ricevere su tutto il
corpo da un anziano cliente, ma soprattutto lei, Liuccia Bonuccia (una memorabile
Guia Jelo), buttana ironica,
ottimista e indipendente.
Aurelio Grimaldi si sofferma, soprattutto nella prima
parte della pellicola, sulla reificazione del corpo dei protagonisti. Il viso,
le labbra, il seno, le braccia, le natiche, il sesso, sono oggetto di primi
piani giustapposti che producono una narrazione franta. La ricomposizione degli
eventi- sia essa dolorosa come nel caso di Bonuccia piuttosto che felice e
sorprendente come per Orlanda - non significherà per niente risoluzione. Dopo
l’assassinio commesso da Maurizio (esasperato o forse solo alla ricerca di
denaro facile), la violenza subita sulla spiaggia da Bonuccia – che poco prima ci
aveva regalato uno dei momenti più esilaranti ed emozionali della pellicola: quando
un ragazzo innamorato di lei la porta in un ristorante ispirato al serial Beverly Hills 90210 e poi in un albergo
di lusso – e la svolta «turca» di Orlanda la narrazione s’interrompe,
a celare finalmente carni, speranze e consapevolezze.
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