Una
Cina oscura, un dedalo di strade affollate, di ambienti stracolmi di oggetti,
una terra che desidera celare all’occidentale, al «diavolo bianco», la propria
natura (e le proprie intenzioni) e per farlo utilizza il complesso immaginario
forgiato da millenni di storia a sua disposizione. In questo setting misterico David Cronenberg costruisce il suo M. Butterfly, con il
quale si confronta con il genere melò. Genere, come sappiamo, amato da registi
Avant-Pop quali John Waters, David Lynch e Pedro Almodovar che ne hanno portato
all’estremo la capacità di mostrare «la morte al lavoro». Cronenberg, che qui
gira per la prima volta fuori dal Canada (fatta eccezione per alcune scene
girate in studio a Toronto), in Cina, a Parigi e a Budapest, prende in mano il
soggetto della pièce teatrale M.
Butterfly del drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film) che a
sua volta ha realizzato la sua opera su un fatto di cronaca: un diplomatico
francese imputato per spionaggio a causa del rapporto con un’attrice dell’Opera
di Pechino – dalla quale egli si convinse di avere avuto un figlio - rivelatasi
in tribunale essere un uomo. Cronenberg, come fu ne La zona morta, non lavora
su un soggetto elaborato e scritto in prima persona ma accentuandone le
caratteristiche più vicine alla sua poetica ne fa un film del tutto coerente
con la sua Opera. In questo caso il regista de Il pasto nudo decide di ridurre la parte della storia dedicata allo
spionaggio per focalizzare (e accentuare) la storia fatale, ambientata alle
porte del Sessantotto, tra René Gallimard (Jeremy Irons) e Song Liling (John Lone), primadonna dell’Opera di Pechino. In essa Cronenberg vede la possibilità
di riscrivere e ribaltare un’opera simbolo della cultura occidentale che, come
spiega Song Liling a un sorpreso Gallimard durante il loro primo incontro, non
avrebbe lo stesso appeal se nella storia fosse stata una donna orientale ad
abbandonare e tradire un uomo occidentale provocandone la morte. Cronenberg attraverso
una nuova e sensuale gestualità contemporanea riscrive, meglio dire muta, i connotati dell’opera di Puccini
creandone una nuova, oscura, versione Avant-Pop.
Song Liling: una proiezione. |
La
scelta di donare alla pellicola le tinte del melò è utile a Cronenberg per
tracciare il sentiero trans-sessuale intrapreso a livello inconscio da René
Gallimard. Egli alla ricerca del perfetto femminile (una ricerca che ci
richiama le prime pellicole del regista canadese, soprattutto Crimes of the future) finirà per
inglobare l’immagine amata, la Butterfly dell’opera pucciniana, in sé.
Tutto
il percorso di Gallimard (e la riuscita del piano di Song Liling che circuito
l’uomo ne carpirà informazioni da passare al governo maoista) è basata
sull’interpretazione freudiana dell’inconscio, soprattutto nelle sue
manifestazioni di proiezione e rimozione. Gallimard, scopriamo poco prima del
finale, quando si confronterà con l’uomo che l’ha circuito, non è innamorato di
Song Liling in quanto individuo ma come proiezione di un immaginario sul reale,
egli definisce la donna amata «perfetta» perché nega a se stesso i reali
caratteri fisici della donna, li rimuove, come «il seno da ragazzo» o la grande
bugia della penetrazione attraverso la quale Song Liling gli farà credere
addirittura di aver avuto un figlio. Di fronte alla nuda verità
(letteralmente), nel furgone che lo porterà in prigione, egli è furioso perché
essa ha osato palesarglisi davanti, impendendogli ulteriormente di nutrirsi
della sua proiezione. Per Gallimard l’ultimo passo possibile è quello di
consustanziare i tratti dell’amata donna-proiezione in sé, ritrovarli degradati
e imperfetti sul suo volto che egli stesso pitta durante la farsa rappresentata
per i compagni carcerati. Di fronte, nello specchio che tiene fra le mani, ora
c’è una creatura baconiana, rosa dalla delusione e dall’infrangersi del suo
sogno sessuale, una creatura cui non rimane che la morte per identificarvisi
completamente.
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