Benvenuti nella città di Sweethaven, un angolo
d’America dove la tranquilla gente locale ha rinunciato alla democrazia per
vivere meglio. Arroccata sul mare, vive di pesca, di quella sana semplicità che
risulta preziosa in un periodo di crisi come la Grande Depressione. Qui giunge
Popeye, alla ricerca del padre che l'abbandonò all’età di soli due anni, ma è
soprattutto il luogo in cui Robert
Altman decide di realizzare al suo tableau
vivant Avant-Pop (il film è citato tra gli archetipi del movimento da Larry
McCaffery nell’imprescindibile appendice al suo Schegge d’America).
Il pretesto è portare sullo schermo Popeye (Braccio di Ferro),
personaggio dei fumetti creato nel 1919 da Elzie
Crisler Segar, in uno degli esperimenti di osmosi fra la settima arte e il
fumetto più felici in assoluto (estimatori della pellicola l'illuminato Roger Ebert e Vincent Canby). Altman dopo aver omaggiato nell'introduzione l’animatore Max Fleischer,
realizza un film musicale e corale in cui i personaggi sono stereotipi dalle
peculiarità esasperate, le scene riccamente coreografate e la comicità
filologicamente slapstick. I costumi
di Scott Bushnell (collaboratore di Altman in molti suoi lavori tra cui Pret-à-porter) tendono a
esasperare i simboli sociali: cappelli enormi, stole viventi, scarpe da
fumetto, cappotti a campana, colori sgargianti, pois, fiori e altri accessori
giganti. Bushnell lavora come se i personaggi di American Gothic di Grant Wood debbano partecipare una sfilata di Moschino,
per poi finire la serata all’after party organizzato
dal Cappellaio Matto…
Altman, lo
sappiamo, ama esasperare le caratteristiche di tutti i personaggi ed è
meraviglioso vedere come Robin Williams
l’abbia seguito nel realizzare un candido e giovane Popeye, guercio, con una
pipa sempre all’angolo della bocca, due avambracci enormi, esibente il lessico
“tocco” e sgrammaticato del personaggio originale, per non parlare poi
dell’eccezionale Shelley Duvall nei
panni della petulante Olivia Oyl.
Con loro l’iracondo e, almeno in apparenza, tiranno Bluto (occhio
alla sua visione rabbiosa tutta in rosso!), il mellifluo J. Wellington Wimpy (in Italia Poldo Sbaffini), la famiglia Oyl tra cui il
fratello di Olivia, Castor, che ha l’aspetto del Pinco Panco/Panco Pinco
disneyano, il folle esattore che gira per la città su di un trabiccolo steampunk, lo scorbutico Braccio di
Legno, il furbo Pisellino (con camicione d’ordinanza) e il resto della colorata fauna
di Sweethaven.
Il film è più che il tentativo di realizzare il live action di una striscia leggendaria,
è la satura visione al caleidoscopio delle radici weird su cui si è sviluppato l’immaginario della provincia
americana. Ecco perché Altman regala spesso allo spettatore carrellate panoramiche
della cittadina di Sweethaven, scene affollate perfettamente coreografate (siamo in un musical, perdinci!),
dialoghi teatrali (dopotutto la serie originale s’intitola The Thimble Theatre) caratterizzati da una recitazione surreale ed
esasperata che recupera allo stesso tempo le istanze del fumetto originale e la
cultura comedy della prima Hollywood.
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