domenica 27 maggio 2012

Corpo tecnologico, natura e sessualità: Cosmopolis di David Cronenberg (2012)


«Il nostro legame con l’auto è molto primitivo. L’auto è diventata un’appendice quintessenziale dell’uomo (…). Abbiamo ormai incorporato l’automobile nella comprensione del tempo, dello spazio, della distanza e della sessualità. Voler immergersi in tutto ciò in modo letteralmente fisico mi pare una buona metafora. C’è un desiderio di fondersi con la tecnologia». Queste parole, usate da David Cronenberg per annunciare nel 1996 la volontà di voler lavorare all’adattamento cinematografico del romanzo di J. G. Ballard Crash, mi sembrano perfette per introdurre il nuovo lavoro del regista canadese, l’ennesima impervia riduzione cinematografica della sua carriera: Cosmopolis tratto dall’omonimo romanzo profetico e genuinamente Avant-Pop di Don De Lillo, pubblicato nel 2003. Queste parole sono anche il motivo per cui i fan detrattori di A Dangerous Method torneranno ad amare il lavoro del regista che ha regalato loro Videodrome, Scanners ed eXistenZ, tre pellicole che si rivelano parentali nei confronti del nuovo arrivato Cosmopolis.
Per il protagonista Eric Packer (Robert Pattinson), giovanissimo magnate della finanza, l’automobile non è soltanto parte di sé, armonica rappresentazione della fusione fra tecnologia ed essere umano, è il SÉ, il proscenio teatrale in cui si agitano e prendono forma le proprie sfere intrapsichiche: i torbidi desideri dell’Es e le imposizioni del Super-Io. A quest’ultimo Eric tenterà di sottrarsi per tutto il tempo in modo da ottenere quella conoscenza, che lo rende tanto terribile agli occhi del mondo e della neo moglie Elise (Sarah Gadon). Eric è figlio dei degenerati protagonisti di Crash, sa che quello fra tecnologia e natura non è più un semplice rapporto ma che è ormai una fusione totalmente estremizzata. La natura – nella New York di Cosmopolis – è ormai emanazione della tecnologia, gli esseri umani, le loro manifestazioni - come spiega la consulente teorica Vija Kinsky (una straniante e magnifica Samantha Morton) – sono azioni del corpo tecnologico degenerato, che vive nella contemporaneità sottoforma di capitalismo finanziario. Eric l’ha capito da giovanissimo costruendo la sua fortuna su modelli finanziari ricalcanti le strutture naturali, ma oggi (è centrale nel film, come nel romanzo, il rimarcare continuo del tempo inteso come eterno presente, uno streaming temporale fatto di rappresentazioni contemporanee giustapposte), mentre ingaggia una sfida contro lo yen (in particolare contro la sua rappresentazione finanziaria e quindi digitale) e mentre un’oscura «minaccia plausibile» lo incalza, Eric prenderà coscienza dell’anomalia, del dettaglio sfuggitogli durante la costruzione dell’armonico e simmetrico schema finanziario che lo ha portato al successo, un concetto che è già dentro di sé (come rivelerà lo straniante non-finale) e di cui il giovane magnate si renderà conto solo troppo tardi.

Juliette Binoche è la mercante d'arte agé Didi Fancher.
La vicenda copre un’intera giornata, un viaggio attraverso la città di New York intrapreso dal tecno-flaneur Eric per tagliarsi i capelli dal suo barbiere di fiducia a Hell’s Kitchen. Come sempre nel cinema di Cronenberg la visione cinematografica è costruita sul rapporto interno esterno, sui suoni e le immagini che Eric decide di far entrare in sé (nella forma della limousine bianca che abita): la protesta no-global degli uomini ratto che inveiscono contro lo spettro del capitalismo (non rendendosi conto di farne parte, di essere una forma di disequilibrio voluta dallo stesso organismo tecnologico), il funerale di Ibrahim, il rapper sufi amico di Eric che sta paralizzando la città (splendida l’immagine dei dervisci che ballano intorno al carro funebre mentre le note di Mecca riempiono l’abitacolo della limo), la minaccia sempre più «plausibile» (perché viene dallo stesso Eric) che ossessiona il capo della sicurezza Torval. Come in Scanners assistiamo continuamente allo scambio fra interno ed esterno, qui dipendente dalla volontà di Eric, uno scambio che non è più tra corpo e ambiente ma fra corpo-tecnologico (l’automobile) e realtà degenerata. Sappiamo anche quanto sia importante per David Cronenberg mettere alla prova la visione dello spettatore. Questo deve essere continuamente mosso a domandarsi se ciò che sta vedendo esiste nel tempo reale del racconto o è emanazione (onirica piuttosto che psichica) prodotta da uno dei personaggi, i come ci sembra per le figure che dialogano con Eric nell’abitacolo: la già citata Vija, il consulente informatico nerd e mellifluo Shiner, il giovanissimo e speculare enfant prodige Michael Chin, la mercante d’arte agé Didi Fancher (una scarmigliata Juliette Binoche, perfettamente nella parte), il rapper Kosmo Thomas; e fuori da esso come il tarchiato Torval (chiara rappresentazione del super-Ego di Eric), il barbiere ab origine Anthony e la «minaccia plausibile» Benno Levin (Paul Giamatti).
Il viaggio di Eric può essere inteso come la rappresentazione completa del metodo psicoanalitico, il colloquio (portato all’esasperazione straniante durante le sequenze nel barber shop e nell’appartamento di Benno), le fasi sessuali di freudiana teoria, la centralità del sesso e la sua sublimazione, in particolare nel cibo da parte di Eric che consuma i pasti di fronte alla moglie Elise chiedendole continuamente quando potranno “consumare” il loro di matrimonio.

Nonostante la filologica pedanteria nel riportare i dialoghi di DeLillo (Marco Cacioppo su «Nocturno Magazine» racconta di come Cronenberg abbia scritto la sceneggiatura in sei giorni, i primi tre dei quali passati a trascrivere, così come sono nel romanzo, i dialoghi di DeLillo) il film possiede – nella sua rappresentazione della mutazione operata da Eric su se stesso - una grande carica immaginifica, tipica della visione cronenberghiana tout court, tra le poche in grado di interpretare questa realtà franta, giustapposta e ormai alla deriva.


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