martedì 6 marzo 2012

American Psycho di Bret Easton Ellis (1991)


A distanza di un ventennio American Psycho – romanzo imprescindibile firmato da Bret Easton Ellis – si conferma paradigma esemplare nella rappresentazione della contemporanea alienazione e della relativa obnubilazione provocata dalle merci. Già nel 1991 il maestro del minimalismo – ispirato da Babbit, romanzo degli anni Venti firmato da Sinclair Lewis - mette in scena  una impressionante «vertigine della lista» attraverso un ritmo, uno sciorinare perpetuo (e per questo rassicurante) di marchi, oggetti, designer, negozi, palestre alla moda e ristoranti, tra cui spicca il Dorsia, meta superiore e inaccessibile,  paradiso artificiale negato. Bret Easton Ellis aveva già rappresentato il decennio degli anni Ottanta nei suoi precedenti lavori Acqua dal Sole e Meno di zero, con questo volume ritorna a lavoro per la rappresentazione della costellazione culturale del nuovo decennio. Cambiano attitudini e istanze: la diluizione dell’individuo nell'universo mercificato stavolta è la sacca placentare che lo accoglie per accrescerne gli appetiti ferini più bassi e sconcertanti.
Il protagonista Patrick Bateman è un novello uomo del sottosuolo (come per l’eroe di Dostoevskij ogni sua affermazione va presa come verità relativa e mai assoluta), ha tutto: bellezza, denaro, successo, ma è soprattutto angosciato a causa di una realtà con cui crede di aver contratto un debito (forse dovuto al padre che già incontrammo moribondo in Le regole dell'attrazione). Pat-il-Grinch scivola sulla superficie come un idrocarburo a basso peso molecolare sull’acqua, manifesta raramente la sua vera natura se non fra le quattro mura di casa e le volte che essa sconfina all’aperto la visione precipita rapidamente in un delirio mitomane che per il lettore significa il passaggio improvviso alla terza persona singolare per tornare poi alla prima persona o in alternativa interrompere bruscamente il paragrafo.

Patrick sprofonda nell’orrore attraverso la violenza perpetrata sino all’estremo, non si limita a uccidere ma tortura con sadica creatività, violenta, dilania, amputa, disarticola e profana i resti delle proprie vittime: prostitute cadute nella tela del ragno, colleghi migliori di lui sul lavoro, vecchi amori in grado di scalfire la superficie costruita a colpi di maschere Clinique. Non c’è moralismo in American Psycho ma eleganza assoluta nella rappresentazione delle intenzioni ferine di Patrick Bateman perfettamente esplicate nel magistrale paragrafo finale.

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