Con la quarta stagione la serie
di culto Damages, il più complesso e
interessante prodotto televisivo degli ultimi dieci anni, sbarca su un nuovo
canale, Audience Network della piattaforma satellitare DirecTV, dopo la
remissione da parte di FX. C’è da essere felici, non solo per il ritorno di una
serie che era stata data per spacciata, ma soprattutto perché la nuova
produzione ha rispettato le istanze originali della serie esaltandole attraverso
l’aggiunta al cast dell’icona assoluta John Goodman e dell’ottimo interprete di film indipendenti Dylan Baker.
La stagione apre, ancora una
volta, su una New York tentacolare e celata, in cui Ellen Parson (Rose Byrne) sta cercando di raccogliere prove per
intentare una causa contro il magnate mercenario Howard T. Erickson (John Goodman) che vende al governo degli Stati
Uniti un servizio militare privato, una vera e propria milizia a pagamento, da
impegnare in zone di guerra e guerriglia, come l’Afghanistan. Erickson si trova
a un punto cruciale della sua attività, il Congresso non desidera più
rinnovargli i contratti per non scontentare l’elettorato e l’opinione pubblica,
contraria alla mercificazione della guerra, soprattutto in tempi di crisi.
Dietro l’ottuso Erickson si muove il mefistofelico Jerry Boorman (Dylan Baker), agente della CIA, scriteriato,
torturatore e privo di qualunque scrupolo. Jerry ed Erickson sembrano essere
legati da un oscuro segreto, una missione scellerata, in cui sono morti tre
uomini ed è stato rapito un bambino.
Dopo aver affrontato i temi della
class action (prima stagione) dell’inquinamento (seconda stagione),
della frode finanziaria (terza stagione), questa volta Damages
si occupa della guerra e dei finanziamenti riservati alle attività militari. L’argomento
ha per l’opinione pubblica una grande rilevanza, i cittadini dopo le menzogne
arrabattate di George W. Bush e Dick Cheney e soprattutto dopo la crisi
economica, ritengono essenziale l’assoluta trasparenza sull’utilizzo del denaro
utilizzato per le costose operazioni militari di cui non si riesce a spiegare
la funzione reale. Il merito della serie, una volta di più, sta nel costruire
un caso mimetico alla realtà che assume, attraverso un lavoro di scrittura
magnifico e una recitazione d’eccezione (godete di ogni singolo cambio d’umore
nello sguardo di Erickson, della paura sottesa a ogni sua decisione), i
connotati alti della forma tragedia (il rapporto tra serialità e tragedia
andrebbe indagato maggiormente come uno dei migliori segnali prodotti dalla
cultura contemporanea, N.d.R.).
Questa quarta stagione porta il
rapporto di Ellen e Patty a un nuovo livello. Glenn Close è magnifica nel
realizzare i silenzi stanchi e meditabondi di Patty. Silenzi che punteggiano la
narrazione rappresentandone la vera chiave di volta. Messa a dura prova dai
terribili lutti che l’hanno colpita nel recente passato (come il socio Tom
Shayes, pace all’anima sua), dagli abbandoni e allontanamenti del marito
fedifrago e del figlio, nonché da un’eventuale terribile malattia della nipote,
Patty continua a osservare il cammino di Ellen. Inconsciamente (ma sarà poi
così davvero?) la segue e supporta nel suo operato, probabilmente in attesa di
un guizzo ereditario nettamente riconoscibile. È forse questo il tipo di pace cui
Patty aspira, o c’è qualcosa di più grande nel suo disegno?
La risposta, come sempre, nella season finale in cui le due donne si
ritrovano per il consueto confronto. Questa volta però rimangono a New York, è
finito il tempo delle pause postbelliche fuori città e gli eventi non
aspetteranno oltre prima di investire le due protagoniste. Il monologo che
impegna Patty di fronte a Ellen, «il fallimento è solitudine», è
iconico e illuminante nei confronti della percezione che essa ha di se stessa e
del suo lavoro. Sarà pronta la giovane Parsons ad abbracciare tutto questo o
dimostrerà che una scelta, un’alternativa, nonostante l’esperienza di Patty è possibile?
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