Un microcosmo simmetrico e
miserando, stretto nell’abbraccio mefitico di un complesso architettonico che
giganteggia, circonda e sovrasta chi lo abita è il proscenio d’elezione del
primo film di Daniele Ciprì, senza
il contributo di Maresco, È stato il figlio, una prova
eccellente, compiuta e già iconica. Tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Alajmo, il film è il racconto parossistico di una famiglia povera, i Ciraulo,
colpiti dall’improvvisa morte della figlia Serenella, cui lo stato promette del
denaro di risarcimento per assassinio di mafia, input economico che all’interno
del microcosmo popolare dove vivono i Ciraulo non tarderà a innescare i
meccanismi della tragedia.
È stato il figlio è opera brillante, visivamente unica nel panorama
cinematografico odierno. Le capacità di direttore della fotografia di Daniele
Ciprì danno qui il miglior esito possibile: le cromie storiche (la vicenda
narrata è ambientata negli anni Settanta ma è raccontata in una filiale delle
Poste Italiane approssimativamente negli anni Novanta), una netta luce che
illumina senza remore il cortile desolato del complesso popolare dove abitano i
Ciraulo, i cieli plumbei che sovrastano le scene imprigionando lo sguardo,
collimandolo emotivamente sulla vicenda, le desolate spiagge e l’immaginario
della Kalsa, che già fu de Le buttane,
ricostruito fra Brindisi e Mesagne. Ciprì sia detto, è un regista di grande
valore, narra la tragedia irreale dei Ciraulo con un ritmo perfetto, in cui
s’incasellano ironia pirandelliana, attitudine fiabesca à la Pitrè - nei racconti di nonno Fonzio che cita anche il mito di
Colapesce, come nell’impostazione narrativa della vicenda stessa - sguardo
verista, soprattutto nella seconda parte del film con il tentativo di riscatto
personale da parte di Nicola Ciraulo, che investe tutti i soldi del
risarcimento per acquistare una Mercedes «blu presidenziale» e
che inevitabilmente finisce per collocare i Ciraulo in una declinazione
surreale e alla deriva del Ciclo dei vinti.
La famiglia Ciraulo al mare. |
Ciprì per È stato il figlio elabora un’impostazione
teatrale, che aumenta nello spettatore la sensazione di straniamento, non
rinunciando però a un certo dinamismo che abbassa lo sguardo e lo introduce,
sinuoso, fra le pieghe della narrazione, mostrando sguardi, atteggiamenti e
scorci che ne completano il racconto. Quest’attitudine teatrale è evidente
nelle meravigliose perfomance del
cast: Toni Servillo è immenso nei
panni, negli sguardi rotondi e facili all’incendio di Nicola Ciraulo, Fabrizio Falco (Premio Marcello
Mastroianni alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia) è il fragile,
innocente e inetto Tancredi, Aurora Quattrocchi (Malena, Ragazzi fuori, Mery per sempre) è la nonna Rosa, la scarmigliata donna fatale (a
metà fra teatro greco e visione orrorifica) che costruirà il tragico finale, Giselda Volodi (Pane e tulipani, Viola di
mare) l’esile e dipendente moglie di Nicola. Intorno a loro una fauna freak e weird che richiama alla memoria i personaggi di Cinico TV, Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro: il signor Pino,
strozzino dai due volti (letteralmente…), l’avvocato strabico e forforoso, i
vicini che si affacciano nell’espressionista scala a triangolo del complesso
popolare. Una corte dei miracoli fra cui si mimetizzano figure allegoriche di
nero presagio e innocenza tradita.
In definitiva È stato il figlio è una visione
imprescindibile che fotografa perfettamente la teatralità e la surrealtà
connaturati nell’isola siciliana.
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