domenica 14 dicembre 2014

Alice in Wonderland di Lewis Carroll

Presente per tutto il Novecento in una miriade di testi, rivisitazioni, saggi e riduzioni cinematografiche Alice ha da sempre rappresentato una delle schegge di cultura letteraria preferite dagli artisti Avant-Pop. I due romanzi che hanno come protagonista Alice sono: Alice nel paese delle meraviglie (1865, edizione consigliata: Feltrinelli con traduzione di Aldo Busi e testo originale a fronte) e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (1871). Con essi Lewis Carroll da vita a un personaggio inedito e rivoluzionario diventato nei decenni simbolo surrealista, femminista, postomodernista, feticcio della sociologia quanto della scienza (sfiziosissimo il volume Alice in Quantum Land di Robert Gilmore). Alice rompe il canone vittoriano che voleva una rappresentazione dell’infanzia come malaticcia, sottomessa a qualunque angheria, catalizzatore dell’accanimento mortuario attraverso pagine e pagine di sadiche e patetiche descrizioni di corpicini battuti e martoriati sotto ogni punto di vista. La piccola e petulante Alice, seppur goffamente, non risparmia alcuna risposta agli attacchi verbali dei suoi interlocutori, è curiosa, naturale nei suoi sfoghi di pianto, non si sottomette né agli sberleffi linguistici del Bruco né al cospetto della Regina Rossa e della sua corte di matti. Alice a dispetto della tradizione non è un esempio didascalico intriso di morale è bensì vitale, irriverente e coraggiosa. Si può ben affermare che tutte le bambine della letteratura venute dopo discendono da lei, pensiamo ad esempio alla Dorothy de Il Mago di Oz di Frank Baum o a Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren.
Il gioco linguistico, il motto, la filastrocca sono un’altra caratteristica esemplare della scrittura di Lewis Carroll/Charles Lutwige Dodgoson (questo il suo vero nome) che come sappiamo si divideva continuamente tra due identità: lo scrittore e fotografo dagli oscuri appetiti e il matematico e uomo di chiesa dedito alla scrittura di saggi e manuali scientifici. Il Nostro teneva a mantenere le due identità separate (si dice che fosse solito rimandare indignato al mittente le lettere indirizzate a Lewis Carroll, Christ Church College, Oxford) ma, come inevitabile, parte degli schemi mentali del lavoro scientifico di Dodgson hanno permeato la scrittura di Carroll, manifestandosi nel delirante e deliziosamente surreale gioco linguistico cui è sottoposta Alice nei suoi incontri sottoterra. Pensiamo alle elucubrazioni identitarie e metaforiche del Bruco, alle filastrocche di Pinco Panco e Panco Pinco, al té coi matti e infine al processo finale alla corte della Regina Rossa. Una più matura e sorprendentemente smart Alice saprà confrontarsi meglio con tale meccanismo nel secondo volume di Carroll Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò dove la storia appare più simettrica (come in una scacchiera, of course) e possiede una maggiore attitudine matematica.

In definitiva due testi cardine e archetipo di tanta cultura pop, straordinario esempio della potenza immaginifica e creativa della letteratura.

sabato 6 dicembre 2014

Smiley Face di Gregg Araki (2007)



Dopo aver raggiunto il grande pubblico con quell’oggetto delicato, umbratile e opalescente che è Mysterious Skin, Gregg Araki lascia la zona suburbana e gli orrori che i suoi steccati bianchi celano alla vista per tornare nell’affollata e bidimensionale Los Angeles e concedersi un giro sulla ruota panoramica con Smiley Face. Il giro parte e ci coglie di sorpresa mentre la voce del doppiatore Roscoe Lee Browne risuona per l’ultima volta nell’àere di una mattina assolata, per noi nullafacenti e biondi come la protagonista Jane F. (Anna Faris, la cui mimica è un puro distillato di empatia) è persino accecante. Inizia così il vorticoso tour, il percorso al cardiopalma, che ci porterà a una lucida, spassosa, iconica, e neanche a dirlo, disatrosa rappresentazione della generazione che vive sul ciglio della crisi economica del 2008.
Sul divano di un appartamento condiviso con un nerd agghiacciante (Danny Masterson che nelle visioni allucinate di Jane F. si scopa un teschio), mentre aspetta l’assegno dei genitori e il sussidio di disoccupazione la nostra eroina, in preda alla fame chimica si pappa tutti i cupcake che Steve aveva preparato con la marijuana per una convention di fantascienza. La sua sarà la fine di un’Alice in un paese delle meraviglie fatto di danni e allucinazioni. Le avventure e le visioni di Jane F. durante il suo peregrinare permettono ad Araki di riversare in Smiley Face una cornucopia di stili e registri, giustapposti, commissionati fra loro, schegge che dal tornando Avant-Pop brillano fra le nuvole posticce che Jane F. disegna col dito: La fabbrica delle mogli di Ira Levin, Second Life, il teen drama (Adam Brody sotto una cascata di dreadlock posticci e JohnKrasinski con gli occhiali che furono di Brady Corbet in Mysterious Skin che si masturba sotto la doccia come James Duval in Nowhere), la Reaganomics applicata al mercato degli stupefacenti e il marxismo ai tempi del «No Logo», la fiaba, Carrot Top e ancora le pettegole di Mondo Trasho sui bus di Los Angeles, un casting gestito da Jane Lynch, una copia del Manifesto del partito comunista fra le mani di Marion Ross e Danny Trejo tranquillo dipendente di un’azienda di carni macinate… su tutto questo si dilata l’impossibilità di elaborare, definire e comunicare di Jane F.

Se vi state chiedendo cosa fare dopo aver consegnato al mondo il vostro capolavoro, potreste provare con la scelta di Gregg Araki, un giro sulla ruota panoramica in compagnia di un sacchetto di erba buona e una penna per scribacchiare i vostri piani futuri sulle pagine del Manifesto di Marx e Engels. 


sabato 29 novembre 2014

Cronenberg nella Hollywood Babilonia: Map to the stars (2014)


«Abbiamo tutti la forza di sopportare le disgrazie altrui» François de La Rochefoucauld.

È arrivato anche per David Cronenberg il momento di affrontare il proprio viaggio nella «Hollywood Babilonia», la cui mappa sozza di sangue brillante Kenneth Anger ha tracciato nei suoi due monumentali volumi, usciti rispettivamente nel 1959 e 1984. Una mappa che molti hanno percorso, dal David Lynch di Mulholland Drive allo Steve Erickson di Zeroville (presto sugli schermi grazie all’impegno del nostro Jimbo) e che Cronenberg affronta con gli strumenti che lui stesso ha forgiato (come Beverly con gli utensili ginecologici per donne mutanti in Inseparabili). L’approccio junghiano, la mutazione, l’onirismo, la malattia, la rappresentazione dei complessi familiari: «strumenti» che si commissionano tra di loro, dando origine a nuovi e sempre più reali modi di rappresentare la mostruosità di cui è capace l’umano.
Dopo anni di girato in Canada Cronenberg, proprio con Map to the stars, approda in suolo statunitense e affronta la Grande Babilonia di cartapesta. La sua camera si semina fra i bassi edifici e le larghe strade del distretto hollywoodiano, dal Sunset Boulevard alle colline di Beverly Hills, per seguire i suoi protagonisti: creature ferine, fragili e perseguitate. L’occhio di Cronenberg segue la scrittura intrisa di humour nero di Bruce Wagner (che nell’attesa di completare il film ha dato alle stampe un romanzo Dead Stars, che supera i confini del girato) e ci offre questa gelida e disturbante visione di una «fantasmata cosciente» e collettiva. L’attrice Havana Segrand (una livida e meravigliosa Julianne Moore), avviluppata nel complesso di Elettra nei confronti della propria «mammina cara», la «piccola canaglia» Benjie Weiss (Evan Bird), i suoi genitori uniti da un atavico tabù e (ovviamente) dal denaro Christina (una spigolosa Olivia Williams) e Stafford (John Cusack, spaventevole e bravissimo come sempre), la folle di catena Agatha (nel nostro cuore ora e sempre Mia Wasikowska) e l’aspirante attore e autista di limousine (c’è bisogno di dirlo? Robert Pattinson, già protagonista di Cosmopolis), tutti sono ossessionati dal proprio «teatro privato» in cui si agitano complessi, paure, innominabili colpe, splendide e perturbanti visioni della propria coscienza, ironiche rappresentazioni del sé.

domenica 23 novembre 2014

Alta tensione di Alexandre Aja (2003)



Quante parole si sono spese sullo splatter! Su quella che per tutti gli anni Novanta è stata «l’estetica dello schizzo di sangue». Una tendenza che inizialmente portò alla riscoperta di tutta una costellazione di pellicole sepolte nei meandri della «seconda scelta» finendo, poi, per ripiegarsi su se stessa, creando fenomeni sempre più imbarazzanti e desolanti. Oggi, horror, splatter, exploitation e fantascienza rivivono grazie a nuova linfa che giovani autori (spesso sotto l’egida dei vecchi numi tutelari) sanno instillare con dedizione e capacità. Un fortunato esempio di questa tendenza è costituito dal trentacinquenne Alexandre Aja che dieci anni fa portava sullo schermo il suo Alta tensione, più che un omaggio al genere slasher, una sua nuova e felice incarnazione, in grado di ottenere successo di pubblico e critica, arrivando a colpire anche Wes Craven (che chiamerà il giovane regista francese per dirigere il remake de Le colline hanno gli occhi).
L’operazione di Alexandre Aja è raffinata e complessa tanto quanto il risultato sullo schermo è immediato e scorrevole. Aja innesta su una parte del plot di Intensity, romanzo di Dean Koontz, le prerogative di uno slasher: oltre all’immancabile bodycount, e a un orribile e mefistofelico assassino che, lento e inesorabile, assottiglia il numero dei personaggi, il sesso (che nello slasher anni Settanta era il «peccato originale», lo spauracchio sempre più psichico che innescava la violenza) e un’agnizione finale che lo rende indimenticabile. 

sabato 15 novembre 2014

La seduzione del male di Nicholas Hytner (1996)

Che cosa sarebbe stato se il ruolo della demoniaca Abigail fosse andato a Kate Winslet e quello della misera Mary Warren fosse stato assegnato a Sarah Michelle Gellar (entrambe in lizza per queste parti) rimane un viaggio nella speculazione del what if che tanto ci piace. È certo che senza la presenza di Winona Ryder la riduzione cinematografica della pièce teatrale Il Crogiuolo di Arthur Miller, realizzata da Nicholas Hytner e uscita in Italia con il titolo La seduzione del male non avrebbe riservato la stessa asfittica, claustrofobica e folle sensazione di impotenza.
Arthur Miller scrisse Il crogiuolo per rappresentare il clima di terrore, follia illogica e caccia alle streghe del maccartismo, ricostruendo i processi alle streghe di Salem nel 1692. Il crogiuolo, rappresentato nel 1953, all'apice del maccartismo, fu ripreso da Nicholas Hytner, con raro rispetto filologico, nel 1996. Il risultato è un’agghiacciante rappresentazione di come il pregiudizio, la superstizione e la cattiveria umana possano portare al consumarsi di un rosario di tragedie sempre più dolorose. L’assenza di umorismo (imposto dal pensiero dominante nella Salem del 1692) e l’atmosfera claustrofobica fanno de La seduzione del male un’esperienza cinematografica unica, alla sua uscita purtroppo non compresa dal pubblico che disertò in massa le sale.

domenica 2 novembre 2014

Giovani ribelli - Kill Your Darlings di John Krokidas (2013)


È una storia che abbiamo letto più di una volta. Una storia che in tutte le sue incarnazioni, siano esse letterarie, saggistiche o documentarie, conserva il suo fascino oscuro e tagliente. In primis per la natura del suo protagonista: quel Lucien Carr, la cui vicenda farà da motore alle energie coagulate a New York, poi esplose in modi e luoghi diversi come beat generation.
A quella storia – che abbiamo amato leggere nel progetto narrativo a quattro mani di Jack Kerouac e William S. Burroughs E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche – è tornato il giovane e talentuoso regista John Krokidas, newyorkese di origini greche, che dopo aver completato gli studi a Yale e alla New York University (dove ha seguito il leggendario University's Graduate Film Program) ha girato due cortometraggi – Shame no more e Slo-Mo - pluripremiati in tutto il mondo. Krokidas co-scrive e dirige Giovani ribelli - Kill your darlings realizzando uno dei ritratti più moderni e felici dei principali autori della beat generation nel momento in cui si raccolgono per la prima volta a New York, intorno alla Columbia University.

sabato 1 novembre 2014

Le streghe di Salem di Rob Zombie (2012)


Una Salem rarefatta, stupenda nelle riprese grigie e silenti di Rob Zombie, si dipana intorno alla dee-jay locale Heidi Hawthorne, appena venuta fuori da una brutta storia di dipendenza da droghe. È questo il set scelto dal rocker e cineasta che ci ha dato visioni gore come La casa dei 1000 corpi e prove di grande narrativa cinematografica, vedi La casa del diavolo, per la sua ultima fatica Le streghe di Salem (in originale The Lords of Salem). Intorno ad Heidi– fragile, spossata e bellissima nell’interpretazione di Sheri Moon Zombie – e su tutta Salem sono stati sparsi i semi di un orrore indicibile, occultato e carsico ma pronto a deflagrare come nella migliore tradizione lovecraftiana. Assistiamo a visioni sempre più asfittiche e terribili per Heidi, terrorizzata di stare tornando ai giorni in cui perdeva il contatto con la realtà grazie alla droga.
In Le streghe di Salem accade qualcosa che solo i lettori di Stephen King possono riconoscere: il piacere di godersi le parti riguardanti la vita quotidiana dei protagonisti, le parti non-horror, che per come costruite diventano la cosa migliore della storia. Pensiamo a tutta la sequenza iniziale che introduce Heidi: il suo appartamento arredato sui toni del bianco, del rosso e del nero, il pannello sul letto illustrato con un fotogramma del Viaggio nella luna di Georges Méliès, Heidi che fragile e stanca si tira giù dal letto per fare colazione e portare a spasso il cane per le strade desaturate di Salem. Una sensazione di delicato spleen la avvolge nei suoi movimenti per la città, la vediamo incedere lentamente, avvolta nel suo montgomery psichedelico, aggrottare le sopracciglia o addormentarsi sulle note di All Tomorrow parties dei Velvet Underground & Nico. Che meraviglia la ricostruzione della vita nella stazione radio dove Heidi lavora (con le sapide incursioni trash-pop tanto care a Rob Zombie) nel trio Big H insieme al di lei innamorato Whitey (Jeff Daniel Phillips, attore-feticcio di Rob Zombie) e Herman (Ken Foree, il mai dimenticato Peter in Zombi di Romero).