lunedì 13 febbraio 2012

Altare della Patria di Ferruccio Parazzoli (2011)


Altare della Patria, romanzo di Ferruccio Parazzoli che ha inaugurato la collana di narrativa de Il Saggiatore curata da Giuseppe Genna, possiede una grande forza visiva e narrativa costruita attraverso scelte autoriali assai particolari e interessanti. Parazzoli racconta una tragedia di cui i lettori conoscono già i connotati ma che ritrovano qui rappresentata attraverso metope ectoplasmatiche, brevi visioni che coagulano sulla pagina assumendo contorni precisi, per mostrare gli episodi costituenti la «rappresentazione». L’insieme di queste rapide e accurate costruzioni narrative - che Parazzoli giustappone non seguendo un mero ordine cronologico ma secondo la visione millenaristica che vuole restituire – raccontano del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse ponendolo al centro della sempre accetta sfida fra Dio e Satana. Entrambi, shakespearianamente, assumono diverse identità per manifestarsi non visti (come quando li vediamo per la prima volta nei panni di un gesuita di Tubinga e di un prelato di provincia discutere della sfida imminente) o nel caso di Satana per tormentare le proprie pedine umane. Altare della Patria è sì fatto da giustapposizioni visive di matrice dorica ma qui l’artista-autore decostruisce, destruttura la vicenda ricreandola non linearmente per restituire le realissime sensazioni di straniamento, perturbazione crescente e paura (la più gelida e temuta: quella del futuro). Satana ha strappato la sfida a un Dio biblico che non esita a rimettere un altro dei suoi figli più devoti (dopo Isacco e Giobbe, principali topoi alla base della narrazione) nelle mani del male per saggiarne la fede.  Questa volta toccherà al vicario di Cristo in terra, papa Paolo VI, cimentarsi col dubbio e col dolore per il silenzio di un Dio di cui si desidera una preconcettuale attitudine alla giustizia ma che invece, disinteressato, agisce lontano dalla logica razionale e manichea che lo vorrebbe al fianco dei giusti per ripristinare il bene. Bisogna rilevare ancora una volta come la visione di Parazzoli in Altare della Patria sia millenaristica. Lo scontro fatale superiore, al di là dagli sconvolgimenti terreni, è figlio allo stesso tempo della cultura classica e dei retaggi, dei debiti, della contemporaneità che Parazzoli ritrova nel terrorismo degli anni Settanta, nelle scelte, nell’ignavia incosciente da cui si svilupperà il degrado e la decadenza dei decenni successivi. Il millenarismo di Parazzoli, incarnato nel potente vaticinio del fagotto andreottiano sulle scale dell’Altare della Patria, si pone come soluzione (non consolatoria ma tragicamente fatale) di una realtà alla deriva, in continua e orrorifica metamorfosi.

Non sfuggano inoltre i riferimenti al Purgatorio (all’anelare un luogo di espiazione in cui il tempo perde i suoi connotati terreni) e alle manifestazioni ectoplasmatiche al cospetto di Papa Montini, come quelle di Benigno Zaccagnini e Giulio Andreotti, o lo stralcio di seduta spiritica con Romano Prodi. Secondo la visione cattolica sono queste frutto di opera sovrannaturale, divina o satanica. Davanti alla trance di Zaccagnini (in cui il segretario della Democrazia Cristiana riporta le parole del mistico del XIV secolo Enrico Suso) Paolo VI compie un gesto esorcistico ma niente assicura che esse non siano emanazioni perturbanti, segnali “altri” che la divinità costretta al silenzio voglia far recapitare al suo servo. Il finale - in cui sconfitta e vittoria non sembrano raggiungere una precipitazione adeguata - restituisce la stessa sensazione di dubbio che ha oppresso l’animo di Papa Montini fino alla fine (che per il pontefice è piena e completa attraverso la riconciliazione con la figura materna, già presente a suo sostegno durante tutta la vicenda).

Ricordiamo infine che Altare della Patria è l’evoluzione, l’ampliamento di una visione elaborata in precedenza da Ferruccio Parazzoli in Adesso viene la notte (Mondadori, 2008) che nella nuova dimensione narrativa recupera la figura di Aldo Moro rendendola cristologica, non più ai margini della sfida sovrannaturale ma centrale nel suo essere vittima, tentata da Satana sull’Altare della Patria (che per la sua puntata maggiore rinuncia a qualunque travestimento), silente ascoltare del vaticinio andreottiano (sappiamo dalla confessione di Satana che è egli stesso a ventriloquare attraverso il fagotto di abiti in penombra, ma possiamo esserne sicuri? Ecco ancora il dubbio) e vincitore nonostante la morte attraverso la dolorosissima sequenza finale. In parlamento, in un’ultima visione ectoplasmatica (per opera di chi?), Moro apre le falde della giacca per mostrare la camicia zuppa di sangue prima di andare via nonostante la corsa di Andreotti (sì ancora lui, sempre lui) per fermare l’amico e compagno di partito ma a sua volta gelato dall’espressione evangelica che gli rivolge Moro «Noli me tangere».

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