Altare della Patria, romanzo di Ferruccio Parazzoli che ha inaugurato
la collana di narrativa de Il Saggiatore curata da Giuseppe Genna, possiede una
grande forza visiva e narrativa costruita attraverso scelte autoriali assai
particolari e interessanti. Parazzoli racconta una tragedia di cui i lettori
conoscono già i connotati ma che ritrovano qui rappresentata attraverso metope
ectoplasmatiche, brevi visioni che coagulano sulla pagina assumendo contorni
precisi, per mostrare gli episodi costituenti la «rappresentazione».
L’insieme di queste rapide e accurate costruzioni narrative - che Parazzoli
giustappone non seguendo un mero ordine cronologico ma secondo la visione
millenaristica che vuole restituire – raccontano del rapimento di Aldo Moro da
parte delle Brigate Rosse ponendolo al centro della sempre
accetta sfida fra Dio e Satana. Entrambi, shakespearianamente, assumono diverse
identità per manifestarsi non visti (come quando li vediamo per la prima volta
nei panni di un gesuita di Tubinga e di un prelato di provincia discutere della
sfida imminente) o nel caso di Satana per tormentare le proprie pedine umane. Altare della Patria è sì fatto da
giustapposizioni visive di matrice dorica ma qui l’artista-autore decostruisce, destruttura la vicenda ricreandola non linearmente per
restituire le realissime sensazioni di straniamento, perturbazione crescente e
paura (la più gelida e temuta: quella del futuro). Satana ha strappato la sfida
a un Dio biblico che non esita a rimettere un altro dei suoi figli più devoti
(dopo Isacco e Giobbe, principali topoi
alla base della narrazione) nelle mani del male per saggiarne la fede. Questa volta toccherà al vicario di Cristo in
terra, papa Paolo VI, cimentarsi col dubbio e col dolore per il silenzio di un
Dio di cui si desidera una preconcettuale attitudine alla giustizia ma che
invece, disinteressato, agisce lontano dalla logica razionale e manichea che lo
vorrebbe al fianco dei giusti per ripristinare il bene. Bisogna rilevare ancora
una volta come la visione di Parazzoli in Altare
della Patria sia millenaristica. Lo scontro fatale superiore, al di là dagli
sconvolgimenti terreni, è figlio allo stesso tempo della cultura classica e dei
retaggi, dei debiti, della contemporaneità che Parazzoli ritrova nel terrorismo
degli anni Settanta, nelle scelte, nell’ignavia incosciente da cui si
svilupperà il degrado e la decadenza dei decenni successivi. Il millenarismo di
Parazzoli, incarnato nel potente vaticinio del fagotto andreottiano sulle scale
dell’Altare della Patria, si pone come soluzione (non consolatoria ma
tragicamente fatale) di una realtà alla deriva, in continua e orrorifica
metamorfosi.
Non sfuggano inoltre i riferimenti al Purgatorio
(all’anelare un luogo di espiazione in cui il tempo perde i suoi connotati
terreni) e alle manifestazioni ectoplasmatiche al cospetto di Papa Montini,
come quelle di Benigno Zaccagnini e Giulio Andreotti, o lo stralcio di seduta spiritica con
Romano Prodi. Secondo la visione cattolica sono queste frutto di opera sovrannaturale, divina o satanica. Davanti alla trance di Zaccagnini (in cui il segretario
della Democrazia Cristiana riporta le parole del mistico del XIV secolo Enrico
Suso) Paolo VI compie un gesto esorcistico ma niente assicura che esse non
siano emanazioni perturbanti, segnali “altri” che la divinità costretta al
silenzio voglia far recapitare al suo servo. Il finale - in cui sconfitta e
vittoria non sembrano raggiungere una precipitazione adeguata - restituisce la stessa sensazione di dubbio che ha oppresso l’animo di Papa
Montini fino alla fine (che per il pontefice è piena e completa attraverso la
riconciliazione con la figura materna, già presente a suo sostegno durante tutta
la vicenda).
Ricordiamo infine che Altare della Patria è l’evoluzione, l’ampliamento di una visione elaborata
in precedenza da Ferruccio Parazzoli in Adesso
viene la notte (Mondadori, 2008) che nella nuova dimensione narrativa
recupera la figura di Aldo Moro rendendola cristologica, non più ai margini
della sfida sovrannaturale ma centrale nel suo essere vittima, tentata da
Satana sull’Altare della Patria (che per la sua puntata maggiore rinuncia a
qualunque travestimento), silente ascoltare del vaticinio andreottiano
(sappiamo dalla confessione di Satana che è egli stesso a ventriloquare
attraverso il fagotto di abiti in penombra, ma possiamo esserne sicuri? Ecco
ancora il dubbio) e vincitore nonostante la morte attraverso la dolorosissima
sequenza finale. In parlamento, in un’ultima visione ectoplasmatica (per opera
di chi?), Moro apre le falde della giacca per mostrare la camicia zuppa di
sangue prima di andare via nonostante la corsa di Andreotti (sì ancora lui,
sempre lui) per fermare l’amico e compagno di partito ma a sua volta gelato
dall’espressione evangelica che gli rivolge Moro «Noli me tangere».
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