martedì 21 febbraio 2012

Oro Rapace di Yu Miri (1998)


È possibile considerare la scrittrice coreana naturalizzata giapponese Yu Miri una enfant terribile della letteratura nipponica? Per quanto seduttiva questa dicitura non ha sortito nessun effetto sull’autrice che austera e minimale - dal cuore della sottile e violenta discriminazione razziale di cui sono vittima ancor oggi i coreani in Giappone - ci propone la storia di Kazuki giovane schizofrenico convinto che la vita vada vissuta come un videogame. È questa caratteristica parabiografica a rendere Oro rapace un piccolo gioiello di cultura Avant-Pop orientale? Sicuramente ne è parte integrante e ne avvalora tutte le tesi: la violenza soffocante e senza parsimonia di cui è impregnata la comunità giovanile rappresentata il rapporto bidimensionale con l’oggetto sessuale animato e inanimato, l’autodistruzione (mai descritta con uno stile tanto affilato e elegante) e la vita dopo la fine (del nucleo familiare come del corpo). Non è un caso che il padre del giovane Kazuki sia il proprietario di un grande locale di pachinko, droga più che passatempo nazionale dei giapponesi di tutte le età. Gli schemi mentali che il giovane liceale propone sono quelli tipici delle narrazioni in forma di gioco come Dead or Alive o Mortal Kombat, dettaglio compreso e ignorato da tutti i personaggi fino al momento in cui non avviene la completa scissione dalla percezione reale (o relativa), fino alla rinnovata e seriale apocalisse finale.

Kazuki vive per conoscenza dai manuali. Ripugna l’esperienza perché non la concepisce come reale. L’unica via di apprendimento è rappresentata dalla violenza efferata e lacerante, dai prodotti della sottocultura pop (i fumetti, i videogame) o dai volumi di saggistica e manualistica. Yu Miri non intende però puntare il dito contro questo tipo di produzione piuttosto la sua è una rappresentazione perfettamente sul filo del postmoderno, affatto femminile (o femminista) e giustamente priva di qualsiasi morale.

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