È possibile considerare la
scrittrice coreana naturalizzata giapponese Yu Miri una enfant terribile
della letteratura nipponica? Per quanto seduttiva questa dicitura non ha
sortito nessun effetto sull’autrice che austera e minimale - dal cuore della
sottile e violenta discriminazione razziale di cui sono vittima ancor oggi i
coreani in Giappone - ci propone la storia di Kazuki giovane schizofrenico
convinto che la vita vada vissuta come un videogame. È questa caratteristica
parabiografica a rendere Oro rapace un piccolo gioiello di cultura Avant-Pop orientale? Sicuramente ne è parte integrante e ne avvalora tutte le
tesi: la violenza soffocante e senza parsimonia di cui è impregnata la comunità
giovanile rappresentata il rapporto bidimensionale con l’oggetto sessuale
animato e inanimato, l’autodistruzione (mai descritta con uno stile tanto
affilato e elegante) e la vita dopo la fine (del nucleo familiare come del
corpo). Non è un caso che il padre del
giovane Kazuki sia il proprietario di un grande locale di pachinko, droga più
che passatempo nazionale dei giapponesi di tutte le età. Gli schemi mentali che
il giovane liceale propone sono quelli tipici delle narrazioni in forma di
gioco come Dead or Alive o Mortal Kombat, dettaglio compreso e
ignorato da tutti i personaggi fino al momento in cui non avviene la completa
scissione dalla percezione reale (o relativa), fino alla rinnovata e seriale
apocalisse finale.
Kazuki vive per conoscenza dai
manuali. Ripugna l’esperienza perché non la concepisce come reale. L’unica via
di apprendimento è rappresentata dalla violenza efferata e lacerante, dai
prodotti della sottocultura pop (i fumetti, i videogame) o dai volumi di
saggistica e manualistica. Yu Miri non intende però puntare il dito contro
questo tipo di produzione piuttosto la sua è una rappresentazione perfettamente
sul filo del postmoderno, affatto femminile (o femminista) e giustamente priva
di qualsiasi morale.
si chiama kazuki il protagonista
RispondiEliminaCorretto, grazie.
RispondiElimina