Quando nel 2005 uscì La casa del diavolo (meglio usare il titolo originale The
Devil’s Rejects), il secondo film di Rob Zombie narrante le vicende della famiglia Firefly, fu immediatamente chiaro
che l’operazione del regista e fondatore dei White Zombie era molto più
complessa e interessante della cornucopia pulp e citazionistica de La casa dei 1000 corpi. Chiusi i conti
con l’amato immaginario di Non aprite
quella porta (The Texas chainsaw
massacre, 1974) Rob Zombie smantella in maniera programmatica la visione
caleidoscopica del primo film, spegne tutte le luci e attenua i colori, altresì
scarnifica le figure dei protagonisti che ci appaiono ora come i reietti del titolo. Zombie per realizzare
il suo obiettivo chiede a Phil Parmet
(che ha una notevole carriera nel campo dei documentari) di occuparsi della
direzione della fotografia. Se ne La casa
dei 1000 corpi abbiamo visto i Firefly muoversi su un set notturno
post-surrealista di matrice splatter in La
casa del diavolo li osserviamo alla luce del sole, on the road, macilenti, dolorosamente efferati. L’organismo-famiglia
è stato smembrato alle prime luci dell’alba: Mother Firefly (Leslie Easterbrook
che sostituisce Karen Black) demoniaca genitrice, umorale ma vinta (nell’accezione
più letteraria possibile) è chiusa in una spoglia prigione alla mercé dello
sceriffo Wydell (un immenso William Forsythe), Baby Firefly e il fratello Otis (che ha perduto l'albinismo sovrannaturale del primo film) avvolti dalla polvere delle highway
americane, sono ora sfatti e lontani dalla placentare protezione della propria
casa (si perde tragicamente per i Firefly la libidinosa dicotomia fra interno ed
esterno del primo film). I due fratelli, insieme al post-clown loro genitore
Captain Spaulding (che ha ancora il faccione di Sid Haig), declinano ferini e violenti le esperienze nel mondo reale
secondo la propria natura bestiale (non ritrovata ma di certo libera di
esprimersi completamente).
Sid Haig e Rob Zombie sul set di The Devil's Rejects |
La casa del
diavolo è un lungo racconto sul dolore in tutte le sue manifestazioni,
anche le più incomprensibili e gratuite come la tortura. È il tentativo di
Zombie di narrare la meschinità e la povertà della natura umana, in alcuni casi
caratterizzata dall’ignoranza (messa a confronto con l’efferatezza gratuita),
dal bisogno di appartenenza (nel tragico ed epico finale) o da quello di
vendetta.
Abbiamo già visto come per Zombie in questa nuova
pellicola sui Firefly sia cambiato radicalmente il modo di vedere e
rappresentare le cose, la sua però non è una rinuncia al confronto con immaginari
culturali precedenti, per sua stessa affermazione La casa del diavolo nasce da schegge impazzite di Gangster Story (la natura del male e la
sua scelta), Il mucchio selvaggio (soprattutto
in merito all’iconico e sanguinario finale di Peckinpah), La rabbia giovane (l’efferatezza generazionale), confluite nella storia dei Firefly insieme a materiale umano rock tipico del background di Rob Zombie come Danny Trejo e la pornostar Ginger
Lynn.
La ricerca, l’attitudine a narrare le
manifestazioni della miseria umana sarà portata avanti nel fortunato reboot
della saga di Halloween, in cui Rob
Zombie cercherà di trovare le radici della violenza sconcertante di Leatherface.
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