giovedì 19 gennaio 2012

The Smiths – Louder than bombs (1987)


di Alessandro Milanese*


Nel 1985 oltre ad avere dodici anni avevo una totale ammirazione per un gruppetto di ragazzi della generazione sopra la mia.
Esseri mitologici.
Nati alla fine degli anni Sessanta, avevano tutto quello che un non ancora adolescente come me sognava. Moto Enduro 125 con potenze che erano ai miei occhi smisurate, accentuate da quel rombo meraviglioso del 4 tempi. Capelli lunghi e perfettamente scompigliati. Idee ben precise su quella che all'epoca mi sembrava una cosa interessante, la politica, e per ultimo ma fondamentale dei gusti musicali assolutamente all'avanguardia, con esempi lampanti come toppe degli U2 in bella vista e addirittura magliette degli Smiths.
Così, affascinato da tanta cultura, e alquanto confuso sulla mia sessualità visto l'ardore con cui seguivo e cercavo di imitare quei sedicenni pieni di ormoni e canzoni, intrapresi la mia strada fatta di vinili, e musicassette copie delle copie delle copie che suonavano sempre con quel tipico fruscio da onde del mare.
Arrivarono gli inevitabili irlandesi e i Simple Minds a ruota, i Cure e il loro cupo gusto pop, e infine una sera d'inverno fu il turno degli Smiths.
Sanremo.


Negli anni in cui gli ospiti stranieri erano veramente qualcosa per cui valeva la pena sprecare un oretta davanti al teleschermo.
Morrissey che si agita in una camicia a fiori aperta forse troppo per la nostra Rai, Marr impassibile e perfetto, e Ask che in tre minuti diventò la mia canzone preferita di quel periodo.
Una decina di anni dopo, grosso modo, quanto avevo la sensazione che il mercato discografico (inteso come lavoro) mi avrebbe dato da mangiare per il resto della mia vita, scovai nello scaffale Wea (Warner Bros) un cd di un arancione scuro.
The SmithsLouder than bombs.
Partendo dal presupposto che le copertine, le foto, quelle foto, dei loro dischi han sempre fatto la differenza, quella volta fu il bollino giallo che per la major discografica americana indicava le parole magiche Special Price, a convincermi.
Il disco, una raccolta di singoli e b-side più qualche versione inedita, conteneva già parecchie canzoni in mio possesso, ma come si suol dire. Un disco in più degli Smiths a prezzo economico non si poteva rifiutare.
Dopo anni e anni, quello che sul momento mi era sembrato solo un vezzo, ora è il mio disco preferito della loro discografia.
Perché in un mix letale contiene le due anime del gruppo, quella super pop ma colta dei singoli meglio riusciti: dal già citato Ask, a Hand in glove, passando per Panic e Shoplifters of the World Unite, e quella più intima e meno da Bbc radio di alcuni retro di singoli, come la stupenda ballata Half a person che fa impallidire tutt'oggi ogni Lara del Rey del pianeta, o la tenerezza composta di Asleep, l'acustica Strech out and wait che apre al finale di disco e che è di una bellezza forse inarrivabile per chiunque abbia mai scritto una canzone. Con l'accoppiata Plaese plase... e This night has opened my eyes che portano l'asticella talmente in alto che il riferimento delle loro misure è rimasto per gli anni a venire qualcosa con cui tutti si sono misurati (Interpol, Gene, Suede, Cramberries, Blur ecc.).

L'anno seguente a Louder than bombs uscì Strangeways, here we come, capitolo finale della band, che a differenza di quasi tutti i gruppi rock (anche citati in precedenza, vedi: U2) decise di sciogliersi avendo ancora molto da dire.
Arrivarono i dischi solisti di Morrissey, alcuni ottimi come Viva hate o Your arsenal, e progetti curiosi e discutibili del buon Marr.
Ma quelli erano altri tempi, altri anni, ed anch'io in leggero ritardo possedevo una consumatissima maglietta con solo il faccione incompreso di Steven Patrick Morrissey e mi sentivo (nonostante che per mia fortuna il Ktm 125 non arrivò mai) un adolescente arrivato.






*Alessandro Milanese cura la rubrica musicale cult About a record su Rivista Inutile.

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