È incredibile il trattamento che è stato riservato
dalla critica e dal pubblico a Fast Company (in Italia Veloci di mestiere).
A una lettura superficiale la pellicola può davvero sembrare la maggiore
anomalia nella filmografia di David Cronenberg, che fino a quel momento aveva
proposto nelle sale due film sperimentali e avanguardistici come Stereo e Crimes of the future e due horror movie apocalittici sul tema della
mutazione biologica associata alla scelleratezza della tecnologia (Il demone sotto la pelle e Rabid sete di sangue). In realtà Fast Company è in grado di dialogare
perfettamente sia con i temi cronenberghiani sia con l’attitudine personale del
regista, con la sua visione.
Fast Company,
con i suoi paesaggi posterizzati fatti di verdi catene montuose, cieli azzurri,
strade affrontate in piena luce, con l’estetica dei mezzi di trasporto e delle
automobili da corsa (che ripropongono i colori e gli stilemi della bandiera americana)
si pone come risposta storica alle sue produzioni precedenti, soprattutto
quelle sperimentali e complesse dell’inizio. In Fast Company il riferimento principale è la Pop Art. Come nel
movimento artistico che negli anni Sessanta cambiò il modo di fruire arte negli
Stati Uniti e nel mondo, anche in Fast Company
c’è il desiderio di contrapposti all’eccessivo intellettualismo del simbolismo
e dell’astrattismo (cardini estetici di Stereo
e Crimes of the future) rivolgendo
la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei
consumi. Ecco, infatti, che in Fast
Company troviamo una rassicurante rappresentazione manichea dei personaggi,
i buoni lo sono senza grigi e i cattivi lo sono quasi in maniera
bidimensionale. La rappresentazione delle corse, dei circuiti, del pubblico,
propone una visione della società dei consumi per nulla interessata alla
complessità (rappresentata nel film dalla realizzazione tecnica di un motore a
doppia carburazione) ma desiderosi sempre della stessa cosa (serialità): veder
correre i propri beniamini con le funny
car, auto di minore potenza ma reboanti e colorate.
Come la Pop Art attinge i propri soggetti dall’universo
del quotidiano, in particolare della società americana (ricordiamo qui che
Cronenberg si vanta ancora di non aver mai girato un film in suolo
statunitense!), e fonda tutta la sua estetica sulla comprensibilità totale da
parte del maggior numero di persone così Fast
Company, propone situazioni da comedy
seriale, pruriginose incursioni di naiadi nude (tra cui la playmate ClaudiaJennings che morì proprio in un incidente automobilistico nel 1979), corse e
incidenti spettacolari.
Non bisogna
dimenticare poi che Cronenberg ha sempre dichiarato una personale passione per
le corse automobilistiche. Passione che avrebbe potuto consolidarsi nel
progetto cinematografico Red Cars che
diventerà invece un libro d’arte a tiratura limitata contenente una
sceneggiatura inedita ambientata nel mondo della Formula Uno degli anni
Sessanta, immagini d’epoca e schemi tecnici automobilistici.
Personalmente considero Fast Company come un’altra incub-AZIONE cronenberghiana. Le riprese
all’interno delle funny car, il
respiro affannato del pilota, il suo sguardo dietro le lenti come unico
dettaglio umanizzante, il rombo, le carrozzerie sollevate a mostrare circuiti
idraulici ed elettrici, gli incidenti mortali, il fuoco, la morte-fusione col
mezzo, la sessualità associata al fluido meccanico, si presentano come la prefigurazione
di quelle che saranno le istanze di Crash,
film tratto dall’opera omonima del visionario James Graham Ballard, diventato
cardine ed esempio della visione cronenberghiana tutta.
Grazie al tuo blog sto scoprendo molte belle cose e prendo spunto per imparare (o provare) ad avere una visione differente su diversi film
RispondiEliminaJack, commenti come il tuo danno un senso a quello che faccio. Sono io a ringraziare te!
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