lunedì 30 gennaio 2012

Fast Company di David Cronenberg (1979)

È incredibile il trattamento che è stato riservato dalla critica e dal pubblico a Fast Company (in Italia Veloci di mestiere). A una lettura superficiale la pellicola può davvero sembrare la maggiore anomalia nella filmografia di David Cronenberg, che fino a quel momento aveva proposto nelle sale due film sperimentali e avanguardistici come Stereo e Crimes of the future e due horror movie apocalittici sul tema della mutazione biologica associata alla scelleratezza della tecnologia (Il demone sotto la pelle e Rabid sete di sangue). In realtà Fast Company è in grado di dialogare perfettamente sia con i temi cronenberghiani sia con l’attitudine personale del regista, con la sua visione.
Fast Company, con i suoi paesaggi posterizzati fatti di verdi catene montuose, cieli azzurri, strade affrontate in piena luce, con l’estetica dei mezzi di trasporto e delle automobili da corsa (che ripropongono i colori e gli stilemi della bandiera americana) si pone come risposta storica alle sue produzioni precedenti, soprattutto quelle sperimentali e complesse dell’inizio. In Fast Company il riferimento principale è la Pop Art. Come nel movimento artistico che negli anni Sessanta cambiò il modo di fruire arte negli Stati Uniti e nel mondo, anche in Fast Company c’è il desiderio di contrapposti all’eccessivo intellettualismo del simbolismo e dell’astrattismo (cardini estetici di Stereo e Crimes of the future) rivolgendo la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei consumi. Ecco, infatti, che in Fast Company troviamo una rassicurante rappresentazione manichea dei personaggi, i buoni lo sono senza grigi e i cattivi lo sono quasi in maniera bidimensionale. La rappresentazione delle corse, dei circuiti, del pubblico, propone una visione della società dei consumi per nulla interessata alla complessità (rappresentata nel film dalla realizzazione tecnica di un motore a doppia carburazione) ma desiderosi sempre della stessa cosa (serialità): veder correre i propri beniamini con le funny car, auto di minore potenza ma reboanti e colorate.


Come la Pop Art attinge i propri soggetti dall’universo del quotidiano, in particolare della società americana (ricordiamo qui che Cronenberg si vanta ancora di non aver mai girato un film in suolo statunitense!), e fonda tutta la sua estetica sulla comprensibilità totale da parte del maggior numero di persone così Fast Company, propone situazioni da comedy seriale, pruriginose incursioni di naiadi nude (tra cui la playmate ClaudiaJennings che morì proprio in un incidente automobilistico nel 1979), corse e incidenti spettacolari.
 Non bisogna dimenticare poi che Cronenberg ha sempre dichiarato una personale passione per le corse automobilistiche. Passione che avrebbe potuto consolidarsi nel progetto cinematografico Red Cars che diventerà invece un libro d’arte a tiratura limitata contenente una sceneggiatura inedita ambientata nel mondo della Formula Uno degli anni Sessanta, immagini d’epoca e schemi tecnici automobilistici.
Personalmente considero Fast Company come un’altra incub-AZIONE cronenberghiana. Le riprese all’interno delle funny car, il respiro affannato del pilota, il suo sguardo dietro le lenti come unico dettaglio umanizzante, il rombo, le carrozzerie sollevate a mostrare circuiti idraulici ed elettrici, gli incidenti mortali, il fuoco, la morte-fusione col mezzo, la sessualità associata al fluido meccanico, si presentano come la prefigurazione di quelle che saranno le istanze di Crash, film tratto dall’opera omonima del visionario James Graham Ballard, diventato cardine ed esempio della visione cronenberghiana tutta.

2 commenti:

  1. Grazie al tuo blog sto scoprendo molte belle cose e prendo spunto per imparare (o provare) ad avere una visione differente su diversi film

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    1. Jack, commenti come il tuo danno un senso a quello che faccio. Sono io a ringraziare te!

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