di Marco Visinoni
Lunar Park è un oggetto estraneo nel percorso letterario di Bret Easton Ellis. Come se la sua decappottabile insanguinata, spinta al culmine dei giri dall’apocalittico Glamorama, fosse andata a schiantarsi contro il disperato STOP urlato da Roger Waters in The Wall. Lo dice Bret stesso in apertura: Lunar Park è un ritorno. A uno stile più pulito (basta incipit interminabili per costringere il lettore nel vortice); alle origini minimaliste, quelle da cui sempre più violentemente l’autore si era distaccato con l’omicida-o-forse-no di American Psycho prima, con i fashion terroristi del suddetto Glamorama poi. Ritorno a parlare di me e lo faccio nel modo più veritiero possibile. Nomi e cognomi reali, ambienti reali. Situazioni riconoscibili. Ecco a voi il vero Bret.
Il primo capitolo è un romanzo nel romanzo: Ellis ripercorre la sua scintillante carriera, dal successo inatteso di Meno di zero alla tournée autodistruttiva per promuovere Glamorama, quando un addetto alla sicurezza era incaricato di irrompere in ogni bagno nel quale lo scrittore – schiavo della droga e a rischio costante di suicidio - si intrattenesse per più di cinque minuti. Superato (quasi indenne) il passato, c’è un presente nel quale Ellis vive con una donna e due figli, uno dei quali avuto da lei anni prima e anni prima rifiutato vigliaccamente. Un Ellis che prova a tirare dritto tra corsi di scrittura creativa, tentativi di stabilità e distacco dalle droghe. Prova, perché niente funziona… e come potrebbe la staticità borghese sposarsi all'eterno bad boy della letteratura americana? Tutto precipita, più Ellis torna al passato più il passato torna da Ellis, con il fantasma del padre che lo tormenta, tra rapimenti-o-forse-no di bambini schiavi degli antidepressivi e mostri orripilanti che turbano la quiete di una provincia americana che quieta non è. Ma terrificante. Lynchana.
Ellis si dichiara sincero ma più ripete nomi conosciuti, luoghi conosciuti e formule conosciute (le minuziose descrizioni del vestiario tanto care a Patrick Bateman) e più fiutiamo il paradosso: il paradosso di raccontarsi per nascondere la verità. Dice di aprirsi ma nei fatti sta solo regalando al lettore quello che il lettore vuole da lui. Vuoi sapere come sono stati i miei ultimi vent'anni? Eccoli: battaglie a colpi di aragosta nei locali alla moda di Los Angeles, droga, reading alcolici farneticanti, droga, bisessualità senza approdo, droga, mesi di sepoltura in hotel a cinque stelle, droga, droga, droga. E il presente? Un Bret formato famiglia che non riesce a crescere se stesso, figurarsi i figli, tra manoscritti pseudoporno*, feste di Halloween con la fauna dei vecchi tempi (Jay McInerney, che non ha preso benissimo il cammeo in Lunar Park) e risvegli da capogiro in case che trasfigurano a ricordo di dimore passate. Tutto questo mentre Patrick Bateman sfugge alle pagine per resuscitare i delitti di American Psycho. Bang.
C’è di che saziarsi, il primo pensiero del fan con la bava alla bocca. Ma è un saziarsi che sa di precotto, uno spettacolo ad applausi pilotati con un Bret ventriloquo che gracchia all’infinito ti piace? Ti piace? Ti piace?
Ti piace?
Ultimamente Ellis ha dichiarato che il Patrick Bateman di American Psycho era il vero lui dell’epoca. C’è da credergli, di certo più che in Lunar Park: là il nostro faceva inorridire le femministe e rimuginare su quanta perversione lo scrittore condividesse, quanta ne generasse solo per shockare; alla fine di Lunar park l’unico dubbio è se Ellis, fingendo di parlare di sé per non parlare di sé, si sia – lui, almeno – divertito fino in fondo.
Scorrendo in inglese le prime righe di Imperial Bedrooms verrebbe da rispondere sì, di gusto.
* Titolo di lavorazione: Figa minorenne
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