mercoledì 30 novembre 2011
Stereo di David Cronenberg (1969)
lunedì 28 novembre 2011
Female Trouble di John Waters (1974)
Scrivendo di Female Trouble – l’ultima pellicola realizzata da John Waters insieme alla scatenata gang dei Dreamland – ho iniziato
subito a pensare alla metabolizzazione, da parte della moda (basti pensare al
lavoro estetico di Nicola Formichetti e Anna Dello Russo) e dei media
mainstream contemporanei, dell’idea centrale della pellicola: quel
rovesciamento del punto di vista con cui interpretare eleganza e bellezza,
donandole connotati orrorifici, mostruosi e postumani.
Allora le motivazioni erano totalmente punk (il
volto di Divine con il taglio alla mohicana apparve immediatamente sulle
t-shirt dei punk londinesi), reazionarie e dissacranti nei confronti di valori tipici
della borghesia. È però la tranquillità,
avvolta da una soffice bambagia pastello, dell’american way of life a generare terrore e follia. Sappiamo già che
una delle ossessioni principali di John Waters fu la Famiglia Manson e il
processo che aveva preso avvio nel 1970. In Female
Trouble Waters ne rielabora il mito, suddividendo la pellicola in capitoli
che raccontano la nascita e la crescita di Dawn
Davemport (interpretata neanche a dirlo da Divine), prima adolescente
problematica poi go-go dancer, infine assassina in nome della fama. Nella prima
parte della pellicola Waters anticipa alcune delle sue future predilezioni:
l’adolescenza problematica (Grasso è bello, Polyester ma soprattutto Cry Baby), le capigliature cotonate e lo
stile 60s che lo riconducono dichiaratamente alla giovinezza. Il nostro è
ancora circondato dai suoi Dreamland e le istanze di quello che è in assoluto
il film-summa di tutta la carriera di Waters devono essere rispettate. Se in
futuro sarà Grasso è bello, oggi è
ancora Brutto è bello: Dawn è reificata a oggetto simbolo della
malattia di una società votata alla spettacolarizzazione, ovviamente del male,
della follia e della violenza. Viene violentata in una discarica (in una delle
scene più folli del cinema di Waters in cui Divine è violentato da… sé stesso
in abiti maschili), strappa coi suoi denti il cordone ombelicale della figlia partorita da sola sul divano, compie azioni lascive, mozza la mano della sua
vicina-antagonista rinchiudendola poi in una gabbia in stile canarino
(realizzata come le scenografie campy
di tutto il film da Vincent Peranio). Dawn è in definitiva una fiera (avvolta
in abiti per l’appunto animalier),
allevata dagli oscuri Dasher (Mary “faccia d’angelo” Pearce e David Lochary), i
proprietari del salone di “bellezza” (le virgolette sono d’obbligo) Lipstick. Saranno loro a guidare Dawn
sul sentiero del crimine e dell’orrore.
giovedì 24 novembre 2011
A morte Hollywood di John Waters (2000)
mercoledì 23 novembre 2011
The Cell di Tarsem Singh (2000)
The Cell, ha le fattezze cupe e ingannevoli di un’opale. È composto da una serie di suggestioni visive, citazioni artistiche e narrative che in esso si armonizzano con intenzione dichiaratamente Avant-Pop.
Tarsem viene dal videoclip, ha diretto i R.E.M. - vincendo l’MTV Video Music Award per il miglior video dell’anno con Losing my religion - e fra gli altri anche Suzanne Vega e Vanessa Paradis. Con The Cell il regista indiano si prende più tempo per costruire fino al più piccolo dettaglio ognuna delle proprie visioni oniriche.
La cornice thriller ospita una sorta di doppio sogno schinitzleriano a metà fra lo steampunk e il futuristico (/futuribile). Vi troviamo le vicende della psicologa Catherine Deane (interpretata da Jennifer Lopez) che abituata a solcare le terre desolate nelle menti dei propri pazienti viene contattata dall’agente Novak (uno spiegazzatissimo Vince Vaughn) perché lo aiuti a recuperare l’ultima potenziale vittima (imprigionata e filmata dentro un cubo di plexiglass che si riempie progressivamente d’acqua) del serial killer Carl Rudolph Stargher (Vincent D’Onofrio) caduto in coma durante la sua cattura.
Tarsem viene dal videoclip, ha diretto i R.E.M. - vincendo l’MTV Video Music Award per il miglior video dell’anno con Losing my religion - e fra gli altri anche Suzanne Vega e Vanessa Paradis. Con The Cell il regista indiano si prende più tempo per costruire fino al più piccolo dettaglio ognuna delle proprie visioni oniriche.
La cornice thriller ospita una sorta di doppio sogno schinitzleriano a metà fra lo steampunk e il futuristico (/futuribile). Vi troviamo le vicende della psicologa Catherine Deane (interpretata da Jennifer Lopez) che abituata a solcare le terre desolate nelle menti dei propri pazienti viene contattata dall’agente Novak (uno spiegazzatissimo Vince Vaughn) perché lo aiuti a recuperare l’ultima potenziale vittima (imprigionata e filmata dentro un cubo di plexiglass che si riempie progressivamente d’acqua) del serial killer Carl Rudolph Stargher (Vincent D’Onofrio) caduto in coma durante la sua cattura.
lunedì 21 novembre 2011
A Dangerous Method di David Cronenberg (2011)
Partiamo dal fatto che A Dangerous Method è una pellicola di David Cronenberg, nel senso che essa s’inserisce perfettamente all’interno dell’Opera complessiva del regista de Il pasto nudo. Non tragga in inganno la sua impostazione dialogica e statica, essa deriva dalla natura teatrale della trasposizione – Christopher Hampton autore della fortunata pièce teatrale tratta dal libro ha anche curato la sceneggiatura del film (N.d.R.)– e per Cronenberg rappresenta lo stesso passaggio per un autore di narrativa alla saggistica. A Dangerous Method racconta dei due numi tutelari della poetica di Cronenberg. Sin da Stereo, il suo primo lungometraggio, ha messo in scena le teorie sulle pulsioni sessuali e la mitologia totemica di Sigmund Freud – Crash, Il demone sotto la pelle, Spider – nonché il rapporto tra la mente e la sua proiezione sul reale teorizzato da Carl Jung (Il pasto nudo).
A Dangerous Method si muove su di un cardine, costituito da Sabina Spielrein (Keira Knightley), prima paziente di Carl Jung poi una delle prime psicoanaliste della storia. È lei a incarnare il “metodo” del titolo, su di lei Jung testa quello teorizzato dal padre-maestro Freud, sempre attraverso lei prova a minarne i connotati divenendone l’amante (ferino e finalmente liberatorio per entrambi), e dopo la definitiva rottura con Freud, ancora via Sabina il disfatto Jung cercherà di recuperare i tratti fisiognomici ed emozionali dell’amato padre-maestro.
mercoledì 16 novembre 2011
Crazy Clown Time di David Lynch (2011)
di Alessandro Milanese*
Partiamo da un presupposto.
Partiamo da un presupposto.
Io
non amo chi ha ricevuto un dono, sotto forma di talento per una
determinata arte, e cerca di esprimersi con altre forme creative. Non
ne conosco il motivo. E' una mia personalissima forma di razzismo,
forse. O forse un rigurgito frustrato di chi come me non ha alcun
talento. Una maniera sbrigativa e dozzinale per dire «tu!
Sei un genio nel fare la tua cosa, non fare la cosa degli altri!».
Me
ne rendo conto, faccio ovviamente la figura del cretino, ma è la
sacrosanta mia verità.
Detto
questo, parto con scetticismo nell'ascolto di Crazy Clown Time
di David Lynch. Un genio del piccolo e grande schermo. Colpevole, tra
l'altro, di aver insegnato a me e a altri milioni di telespettatori
che anche quello che normalmente chiamiamo telefilm può
essere interessante, affascinante, ben orchestrato, ben recitato e
con una grande colonna sonora.
E
questa è per assurdo la debolezza di questo disco.
Arrivare
dopo le colonne sonore dei suoi lavori (da Cuore Selvaggio a
Mulholland Drive). Perché è inimmaginabile non legare questi
suoni a quelli che si muovevano dietro Laura Palmer in Twin Peaks, per esempio. Il tentativo, sia detto da subito, fallisce,
in alcuni casi anche miseramente.
martedì 15 novembre 2011
Multiple Maniacs di John Waters (1970)
Multiple Maniacs porta avanti la visione underground
e proto-punk di Mondo Trasho
aumentando i confini della visione watersiana, arricchendola di nuove
ossessioni formali, visive e contenutistiche. Qui John Waters si oppone ancora
alla visione borghese da cui egli stesso proviene. Abbiamo visto come il
bigottismo e l’ipocrisia del ceto medio siano stati bene immortalati nel
magistrale finale di Mondo Trasho,
con le pettegole additanti la “diversa” (indi mostruosa) Mary Vivian Pearce.
In
Multiple Maniacs JW - ancora una
volta insieme alla banda dei Dreamland – opera attraverso un approccio maggiormente
onirico e dadaista (basti citare la scena in cui Divine è violentata da un’aragosta gigante) in cui tutte le paure della middle class vengono spettacolarizzate,
materializzate attraverso la camera come enormi oggetti pop (secondo la lezione
warholiana). La paura dell’ignoto proveniente dalla Guerra Fredda, l’orrore per
la diversità (esibita qui come in un freak show), la spettacolarizzazione della
violenza (una delle ossessioni principali di Waters è il processo alla Famiglia
Manson), in un finale che sembra citare allo stesso tempo Godzilla e Guy
Debord.
venerdì 11 novembre 2011
A Milano la mostra «Stephen King e il cinema»
Novembre
si conferma il mese di Stephen King.
Per Sperling & Kupfer martedì è uscito 22/11/63,
definito dal traduttore Wu Ming 1 «il romanzo più “filosofico” di King» e dal
22 novembre sarà disponibile, solo in formato e-book, Miglio 81 che riprende il
filone horror sulle automobili (Christine, la macchina infernale, Buick 8).
Non finisce qui. A indagare il
complesso e fortunato rapporto del Re del brivido con la settima arte la casa editrice Sperling &
Kupfer ha anche organizzato - al Foyer dello Spazio Oberdan (Viale Vittorio Veneto 2 Milano) - la mostra Stephen
King e il cinema che raccoglie immagini, scritti autografi, lettere, fotografie
e romanzi che offrono indicazioni e notizie sulla vita dello scrittore, sul suo
lavoro e sulla straordinaria diffusione dei suoi libri in tutto il mondo,
nonché varie suggestioni sui legami delle sue storie con il cinema (dall’invidiato
finale della trasposizione di Carrie
di Brian De Palma al rapporto conflittuale con la versione di Shining di Kubrick). Il punto di
partenza per la mostra è il testo definitivo sullo “zio” (come i suoi lettori
amano chiamarlo): Tutto su Stephen King di Ben Vincent. Un volume essenziale che
raccoglie documenti, testimonianze e riflessioni sul rapporto fra i demoni
personali dello scrittore di Bangor e i suoi scritti acclamati in tutto il
mondo.
mercoledì 9 novembre 2011
La pelle che abito di Pedro Almodóvar (2011)
«I
progressi scientifici possono aiutare l'uomo o farlo sprofondare nell'abisso,
invece l'arte non tradisce mai». (P. Almodóvar)
Almodóvar in La pelle che abito fa sua la lezione di Rosalind Krauss che muove dal concetto di index, di archivio per esplorare i concetti di informe, inconscio ottico e collage. Basti pensare alla collezione di capsule Petri nel laboratorio del protagonista Robert Ledgard (Antonio Banderas) o al muro su cui Vera (Elena Anaya) scrive e accumula microdati e date (es. la ripetizione della parola “respiro”) che restituiscono il suo terrificante percorso di formazione e di genere. Riconosciamo quest’operazione nel percorso silenzioso di Vera all’interno della sua prigione (un luogo interno, violentato continuamente dallo sguardo esterno dello spettatore/creatore Ledgard). Vera smembra e riduce a frammenti informi i vestiti da donna, trova sicurezza all’interno della forma, della superficie sempre più impenetrabile che la imprigionerà per sempre, lo fa attraverso la meditazione, lo yoga. Sempre sul sentiero dell’informe Vera fa esperienza di sé attraverso la visione e l’imitazione delle sculture di Louise Bourgeois, che ha magistralmente rappresentato la percezione della sessualità, della famiglia e della solitudine, attraverso immagini-trasfigurazione degli organi genitali.
martedì 8 novembre 2011
L'ombra dello scorpione di Stephen King
Era il lontano 1978 quando Stephen King dava alle stampe L’ombra dello scorpione, una delle sue opere più articolate e ricche di suggestioni in cui un virus (chiamato Captain Trips) elaborato a scopi militari, con un tasso di infettività del 99,4% decima la popolazione della terra. Il lungo romanzo (823 pagine) parte da un riazzeramento sociale (tematica fra le più amate da Stephen King) e propone uno scenario post-apocalittico e visionario in cui i sopravvissuti americani al virus si riuniscono in due fazioni differenti, una a est (oriente, la nascita) l’altra a ovest (occidente, il tramonto, la morte). La prima fazione è guidata dalla ultracentenaria Mother Abagail Fremantle, una donna afroamericana in comunione spirituale con “Dio” (un dio biblico, atavico), la seconda retta e organizzata nel terrore da Randall Flagg, creatura sovrannaturale rappresentazione del male assoluto. È quest’ultimo il riferimento intertestuale più importante, lo ritroveremo infatti nei romanzi L’occhio del drago, nel racconto Cuori in Atlantide e nella serie più famosa dello zio Steve, quella della Torre Nera. Riferimenti a quest’ultima saga sono poi stati aggiunti nell’edizione del 1991 in particolare al concetto di “ka” (destino) e “ka-tet” (gruppo di persone unite, anche per un breve tratto di tempo, dallo stesso destino).
lunedì 7 novembre 2011
The Dome di Stephen King (2009)
Come dichiarato dallo stesso King nella Nota dell’autore posta alla fine del
mastodontico romanzo (1056 pagine), l’idea di The Dome nacque nel lontano 1976, mettendo in crisi l’allora
ventinovenne scrittore che trovò l’impresa - soprattutto nelle sue istanze
ecologiche e scientifiche - superiore alle sue capacità. Nel 2007, dopo una
carriera costellata di successi (e una breve parabola discendente con Cell e Colorado Kid), King decise che era ora di tornare a narrare le
vicende di Chester’s Mill e della misteriosa cupola che la isola dal resto del
mondo per una (apocalittica) settimana. Col supporto dell’amico assistente medico
Russ Dorr (il personaggio di Rusty Everett è forse ispirato a lui?) King ha
potuto elaborare la narrazione senza il rischio di commettere errori grossolani
in merito alla medicina e alla meteorologia. Tanto più che in The Dome il discorso
scientifico supporta la
metafora ecologico-politica dello sfruttamento delle risorse limitate da parte delle due fazioni - guidate da due ka-tet[1] opposti - che si creeranno
presto sotto la cupola.
martedì 1 novembre 2011
Zeroville di Steve Erickson (2007)
Facile
affezionarsi a Vikar, il protagonista del capolavoro avant-pop di Steve
Erickson Zeroville. Arrivato a
Los Angeles dalla provincia americana con i volti di Montgomery Clift e Liz
Taylor tatuati sul cranio per
affrontare un viaggio onirico su una strada fatta di frame cinematografici. Il romanzo di Steve Erickson però è molto più che una riflessione sull’appeal nero
dell’industria del cinema, sa infatti farsi allo stesso tempo bellezza e
orrore, “primo piano” e “campo lungo”. La stessa struttura del romanzo dà al
lettore la sensazione di una lunga seduta in sala di montaggio, dove viene
rivelata la costruzione temporale della Storia: «Il cinema c’era già prima di
Dio. Il tempo è circolare come una pizza di pellicola».
Leggere Zeroville
è come scorrere fra le dita una pellicola, osservando a contrasto ogni singolo
fotogramma. È la rivelazione apparsa per caso sullo schermo bianco di un cinema
notturno sulla Hollywood Boulevard. È la vischiosa e spasmodica ricerca di
un’immagine sopita. Osservare il «cineautistico» Vikar venire a contatto con i
luoghi che per tanto, troppo tempo, ha solo sognato di attraversare è
un’esperienza totale. La prosa di Erickson è scientemente avant-pop e delizia
in ogni dettaglio, il lettore è presto rapito da un turbinio di citazioni (dalle
liste dei film visti da Vikar durante il suo soggiorno a Los Angeles alla
collezione di pizze che il nostro ha raccolto durante la sua esistenza), di
riferimenti biblici legati alla cultura cattolicissima del padre violento e di
simbologie legate alla migliore tradizione surrealista. Un loop raffinato e
originale dal quale davvero non si vorrebbe mai uscire.
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